Paolo Triestino ne "Il Paese dei Ciechi": La capacità di relazionarsi con ciò che ci circonda è sempre più rara. L'intervista di Fattitaliani


Al Barnum Garbatella, il 2 e 3 marzo alle ore 18Il Paese dei ciechi” di H.G.Wells. Reading di Paolo Triestino.
Il testo è incentrato sulla difficoltà di adattamento e sul conflitto che scaturisce dal confronto con il diverso. Conferma la grandezza di uno dei padri della fantascienza. Un racconto surreale che fornisce molti spunti di riflessione. Fa comprendere perfettamente la pochezza degli uomini.
A causa di una caduta sulle Ande il protagonista Nuñez si risveglia in una vallata, cosa scopre?

Un mondo che sembrava esistesse soltanto nella fantasia dei racconti e invece è un mondo reale, la così detta Valle dei ciechi che in seguito ad un cataclisma avvenuto molti secoli prima era rimasto completamente isolato dal mondo.  A tutti gli abitanti cominciò ad abbassarsi la vista probabilmente per la consanguineità, cioè per il fatto che persone che si riproducono troppo tra di loro si indeboliscono e nel corso dei secoli anche il ricordo della vista sparisce. Gli occhi sono nient’altro che fessure messe lì per abbellire ma in realtà non servono a nulla e sviluppano tantissimo gli altri sensi. Diventa un luogo dove la vista non esiste ma non è vissuta neanche come un handicap anzi come un normale stile di vita e in questo mondo con le sue leggi, con il suo equilibrio arriva quest’uomo che in seguito ad una caduta rovinosa durante una spedizione, dopo giorni e giorni di cammino, si ritrova lontano da quella che veniva considerata la civiltà, scorge da lontano case storte, vede delle cose strane. Il primo pensiero è “qui divento re perché il mio vedere sicuramente mi porrà in posizione dominante rispetto agli altri” poi in realtà scoprirà che non sarà così anzi il suo vedere viene presa come una follia. Gli altri hanno sviluppato così tanto gli altri sensi che in realtà sono dei pari, lui per quanto possa sforzarsi non riesce a essere superiore a loro, vuole dimostrarglielo, ma non ci riesce. Non solo non accadrà ma diventerà un po’ l’ultimo dei servi però scopre l’amore quando la figlia di uno dei capi di questo strano mondo si invaghisce di lui, delle sue stramberie, dei suoi racconti fantasiosi e comincia questa storia d’amore che viene dapprima osteggiata da tutti ma cresce sempre di più fino a che decidono di sposarsi ad una condizione: che lui si cavi gli occhi. Lui per amore, accetta di salire su una collina per ammirare l’alba per l’ultima volta, lì capisce che non può rinunciare a tutto ciò che gli occhi e il mondo possono regalare. Fugge e ritornerà nella società dopo tanto tempo. La metafora è un grande invito ad andare oltre, Wells ha scritto La guerra dei mondi ed è considerato uno dei padri della fantascienza.
Il paese dei ciechi ci invita ad aprire la mente a non fermarci davanti alle apparenze ma cercare di comprendere l’altro è sempre facile?   

Beh, è chiaro che non ci si riesce sempre, perché per vedere bisogna avere gli occhi e non serve aprirli soltanto ma bisogna anche arrivare a vedere davvero. È come ascoltare, a volte ascoltiamo qualcuno ma in realtà lo sentiamo e basta. La capacità di relazionarsi con ciò che ci circonda è sempre più rara, è sempre più dispersa tra i mille smartphone e le corse frenetiche della vita che sicuramente è più piena di cose ma più povera di tutto.
È stato scritto nel 1904 ma è un testo molto attuale perché parla di ospitalità, emarginazione, accoglienza…
Assolutamente. I grandi classici conservano la loro modernità perché non esauriscono la loro funzione! Penso sempre a Shakespeare che seppure parli di storie lontane molti secoli, hanno qualcosa che li rende sempre attuali. Amleto lo puoi vedere in mille sfaccettature e sono tutte giuste, così anche il paese dei ciechi è a mio avviso un capolavoro perché contiene dentro qualcosa che anche oggi ha una modernità incredibile e che aggancia gli spettatori. 
Lo spettacolo l’ho fatto già diverse volte ed ogni volta, ho  sperimentato di persona come questa storia apparentemente così lontana da noi in realtà è vicinissima perché parla direttamente all’anima, risveglia in noi cose sopite, un po’ dimenticate, io credo che sia davvero un bellissimo testo. Ho riscontrato una grandissima empatia ed energia che arrivava dalla platea.

Elisabetta Ruffolo

Fattitaliani

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