Ci ricorda Raffaele Alloggia,
appassionato cultore di storia locale, che la Fiera di Ognissanti a Paganica
ha origini assai remote. Se ne trova traccia sul Libro Mastro della Parrocchia di Paganica fin
dal 1678. In origine la manifestazione si svolgeva nel solo giorno del 1°
novembre e coincideva con altre simili iniziative che avevano luogo nel
territorio aquilano, come quella di Capestrano. La grande affluenza
di commercianti ed animali, nonché la ingente quantità di prodotti della terra
che si vendevano nell’occasione, indussero i responsabili dell’organizzazione a
prolungare di ben due giorni l’annuale evento paganichese. La proposta della
proroga fu avanzata dal Decurionato (organo municipale che equivale all’attuale
Consiglio comunale) e approvata con Regio Decreto del 17 gennaio del 1826. Si
stabiliva così – è sempre Alloggia a ricordarlo - “che nella piazza principale si
commerciassero varie merci come cuoiami, fagioli, zafferano, mandorle e cereali
vari, mentre tutti gli animali rimanevano dislocati nelle varie aie in località
Sant’Antonio”.
Nel secolo scorso la fiera si svolgeva nei giorni 31 ottobre e 1°
novembre, e riguardava principalmente gli animali (ovini, vacche, cavalli,
asini). La manifestazione è ancora viva nel ricordo delle genti della valle del
Raiale. La concomitanza della manifestazione con l’inizio della stagione
fredda, forniva ai nostri nonni l’occasione per compare le scarpe ai figli. Non
si trattava però, in tempi - fino agli anni sessanta - in cui la nostra società
era ancora prevalentemente contadina, di acquisti dettati dalla moda: le scarpe
venivano comprate come le maglie, “a crescenza”, con misure abbondanti, tali
che dovevano durare per i successivi due o tre anni. In questo periodo si usava
anche acquistare il maiale per l’anno successivo (“u purchìtt”).
Chi scrive ricorda che il 31 ottobre, ultimo giorno di scuola prima
delle vacanze di Ognissanti, le strade del quartiere Sant’Antonio, a Paganica,
brulicavano di animali e uomini. Si poteva assistere a scene assai
gustose di vita paesana, come quando qualcuno degli acquirenti, interessati
magari all’acquisto di un asino, con fare all’apparenza disinteressato,
chiedeva al padrone, riferendosi al prezzo: “Quanto ne vo’ de s’asino?”. Il
padrone della bestia sparava una cifra, al che il primo replicava: “Eh...co’ sa
tosse...” (come a dire: se non abbassi il prezzo non venderai). Altre volte il
padrone tesseva platealmente le lodi della bestia e chiamava a testimone
perfino il Padreterno a garanzia della sua sincerità (“M’ tea créd paesà, s’ tu
ju compr – riferito all’asino – m’ tea rengrazià p’ tutta la vita, quant’è vér
Ddì” – Mi
devi credere, paesà, se tu lo compri mi devi ringraziare per tutta la vita,
quanto è vero Iddio).
Si racconta, a questo riguardo, anche di colossali buggerature, come
quella di un tale che, dopo aver pagato un asino e aver constatato che
zoppicava, si sentiva rispondere dal venditore: “Ma non te preoccupà: quesso lo
fa solo quanno cammina”. Ricordo una volta che mio nonno vendette una mucca, e
tornando a casa riportò una saporitissima porchetta. Sembrava una piccola
festa, con la nonna che si faceva raccontare per filo e per segno come era
andata la trattativa. Un’altra volta, al posto di un mulo diventato vecchio, e
che alla mia fantasia di bambino appariva come un bel cavallo nero, comprò
un’asina, destinata a servire per molti anni a venire. L’asina era robusta,
come certe vecchie contadine del mio paese, e molto più mansueta del vecchio
mulo, la cui dipartita mi era sembrata segnare la fine di un’epoca. Il
proprietario dell’asina era di un paese vicino, ed era soprannominato
Peppeverde. Mio nonno ne parlava come di una persona onesta, che, vendendogli
il ciuco, gli aveva fatto fare un affare. Ancora un anno dopo, ce lo vedemmo
entrare a casa mentre eravamo a pranzo: trovandosi di passaggio era venuto a
sincerarsi che fossimo rimasti soddisfatti dell’acquisto.
Altri tempi davvero…
Giuseppe Lalli