Giuseppe
Zeno al Teatro Sala Umberto di Roma, fino al 14 ottobre, nel ruolo di
organizzatore di una maratona di ballo fino allo sfinimento in “Non si uccidono
così anche i cavalli” tratto dall’omonimo libro di McCoy. Adattamento e regia
di Giancarlo Fares (intervista di Fattitaliani).
Zeno si cala nel ruolo di Joe alla perfezione e ne fa una sorta di “deus ex
machina” che in qualche modo tenta di gestire il destino degli altri. In questo
caso, le coppie di ballerini che partecipano alla Maratona per guadagnarsi del
cibo o per farsi notare da qualche regista. Erano gli anni dalla depressione e
lo show business faceva leva sulla povertà della scelta. La
spettacolarizzazione non è molto cambiata da allora con i reality, in cui tutti
sgomitano davanti alle telecamere per conquistare il quarto d’ora di celebrità
di cui parlava Andy Warhol.
La spettacolarizzazione della sofferenza e del disagio mano che Joe sfrutta
fino all’ultimo, ripetendo di volta in volta “Ne rimarranno solo due”.
Joe è freddo, cinico e spietato, molto lontano da quello che è Giuseppe Zeno
nella realtà, infatti nell’intervista dice che nel personaggio non ha portato
nulla di suo.
Da grande professionista qual è, ne ha fatto un’interpretazione straordinaria.
Una persona semplice e non il Divo che qualcuno potrebbe aspettarsi che fa
l’attore perché ha studiato e lavorato e non si prende tutti i meriti ma li
divide anche con gli altri
attori-performer presenti in scena!
Hai il
ruolo del mattatore che racconta gli eventi. È un personaggio molto forte.
Cosa hai portato di tuo?
Sì, se per mattatore intendiamo colui che tiene le fila, una sorta di
“deus ex machina” che in qualche modo ha semplicemente l’illusione di poter
governare il destino degli altri. Questo è uno spettacolo in cui l’illusione,
di chi partecipa alla maratona e dello stesso presentatore nonché
organizzatore, è molto forte.
“È meglio un sogno o un’illusione” come
recita un personaggio?
Credo sia una
frase che dica Gloria. Per quanto riguarda il mio personaggio è lo specchio
della fragilità e della crepa che si è un po’ aperta in termini di etica e di
valori all’interno di quello che è il mondo dello spettacolo. Chi ha scritto il
libro, Mc Coy e chi ha fatto il film, una trasposizione sicuramente con una
vena più claustrofobica perché dettata dal linguaggio cinematografico rispetto
ad una rappresentazione teatrale e ad una veggenza così come è accaduto in
passato verso altri testi con i quali mi sono cimentato. Nel “Sorpasso” si raccontavano gli anni ’60,
la precarietà, l’illusione, il boom economico. In questo caso noi raccontiamo
quella crepa che in qualche modo si è aperta a livello etico e morale nello spettatore
cioè in colui che assiste ad una rappresentazione che sia teatrale,
cinematografica o televisiva o che sia di puro intrattenimento.
Sono epoche diverse e quindi anche la
spettacolarizzazione è diversa.
In questo caso, la spettacolarizzazione
viene fatta sulla povertà e sul bisogno dell’essere umano. Noi vediamo
continuamente in televisione o nei reality show che altro non è che lo show della
realtà, della verità ma non lo è assolutamente. Chi va lì dentro tutto ha tranne
che la naturalezza perché sa a cosa sta andando incontro e sa di avere un
occhio puntato addosso e non sarà mai se stesso. Lo è soltanto un bambino fino
ad un anno e mezzo di vita ma in realtà chi partecipa a queste forme di
intrattenimento ha una tale disperazione dentro o una grande voglia di rivalsa
o un “fottuto” bisogno di dover emergere o di voler manifestare al pubblico il
proprio disagio, o di farsi notare da un Regista. Così come la lacrima spinta
perché arriva la mamma che non vede da giorni. Lì c’è la spettacolarizzazione
della sofferenza umana. Non c’è assolutamente nulla di diverso rispetto a
qualche anno fa. E’ cambiato il mezzo di comunicazione attraverso il quale si
comunicano certe cose, prima non c’era la televisione, altrimenti McCoy avrebbe
probabilmente scritto o se fosse stato un regista avrebbe fatto “Truman Show”
invece di scrivere “Non si uccidono così anche i cavalli. Solo che all’epoca il
cinema non era una grande potenza, la letteratura era la prima forma di
intrattenimento e anche di spessore che c’era e quindi credo abbia preferito
scrivere un romanzo.
Per lo spettacolo avete infatti fatto
riferimento al libro.
Sì perché il romanzo ti permette già in termini di
cifre, di rappresentazione. Se ci
fossimo attenuti pedissequamente a quella che era la sceneggiatura del Film,
chiaramente in Teatro non è rappresentabile, non ti permette di far emergere le
conflittualità tra i personaggi perché il cinema va a creare anche una
sospensione, una pausa con un primo piano lunghissimo o a stacco. Si avvale
della bellezza del montaggio che ti permette di dare ritmo, continuità, di
poter marcare un silenzio soltanto guardando gli occhi. In Teatro non puoi
farlo. Guardiamo un personaggio, chissà quante cose sta pensando mentre si
riscalda in scena, si sta muovendo dentro un mondo ma non ci arriva. Il cinema ti permette di mettere a fuoco
quello che lui fa. Ad ogni spettatore arriva una sensazione diversa. E’ cambiato
il mezzo ma il disagio è lo stesso. La spettacolarizzazione della sofferenza
umana e del grande disagio umano. Noi, soprattutto cerchiamo di mettere a fuoco
quello che è il decadimento etico. Noi, da questo punto di vista, siamo in un
momento storico veramente tragico da questo punto di vista. Un livello etico
che non abbiamo mai toccato neanche durante le guerre. Nei conflitti mondiali c’era
una follia dietro e dietro ad essa c’erano anche delle strategie. Viviamo in
un’epoca in cui questa strategia non c’è e se ci fosse avremo anche la
consapevolezza e l’illusione di poter concepire qualcosa. Oggi siamo attratti
dall’effimero. Gli attori vengono scelti per i Like. I reality che ritengo una
forma d’intrattenimento valida, ma non trovo assolutamente giusto che a fronte
di un’offerta di questo genere, non vengano date altri tipi di offerte e non
vengano date altri tipi di possibilità anche ad attori straordinari come sono
quelli in scena in questo spettacolo e che preferiscono la polvere di un
palcoscenico ed il sudore donando totalmente se stessi. Sono particolarmente
contento di questo gruppo perché quello che io faccio in scena è chiaramente il
frutto di quello che io cerco di dare al personaggio. Di mio non ha
assolutamente nulla perché non sono così cinico e spietato ma sicuramente ho
alcune fragilità come il senso di precarietà. A un certo punto è lui stesso ad
ammettere di aver fatto una stupidaggine più grossa di lui e dice “Devi correre
dei rischi per rimanere al vertice”. Superare la paura ed alzare la posta in
gioco e lui lo fa mettendoli continuamente alla prova. Ciò che faccio in scena,
non è altro che il risultato di quello che loro, sulla base di un grandissimo
lavoro di improvvisazione durato due mesi, hanno fatto ed io sono riuscito
prima durante le prove e poi man mano di rappresentazione in rappresentazione,
a cogliere e rubare da ognuno di loro.
Durante l’intervista con Giancarlo Fares
si è messo in risalto il fatto che i reality e la troppa
spettacolarizzazione facciano credere
che diventare attore sia solo
improvvisazione e non frutto di grandi sacrifici. Che ne pensi?
Bisogna
partire dal presupposto che fare l’attore è un lavoro e che come tutti i lavori
richiede una preparazione di base. Senza una preparazione adeguata non puoi affrontare
nessun lavoro. Mi è particolarmente agevole quello che faccio perché nel tempo
l’ho coltivato, ho conosciuto me stesso, quello che è la macchina, il mio
strumento in virtù di quella che è stata una formazione e una collaborazione
più che ventennale con diversi registi e colleghi. E’ chiaro che poi mi sono
trovato ad esprimermi per lo più con il linguaggio televisivo che oggi
rappresenta la più grande forma di divulgazione. Oggi, il Cinema italiano
tranne alcuni casi è diventato un fenomeno che si autocelebra all’interno di
poche circuitazioni di Festival nostrani e romani. La triste realtà è che
purtroppo i Film non incassano perché le idee sono stagnanti, sono rimasti su
degli archetipi e degli stereotipi che vorrebbero in qualche modo ricalcare la
Commedia all’Italiana senza la genialità della Commedia all’Italiana. Per
fortuna ci sono le grandissime eccezioni come Garrone, Genovese, i Sorrentino.
La triste realtà ripeto è che purtroppo il Cinema non incassa. Il Teatro rappresenta proprio per citare
Sorrentino, quella “Grande bellezza” di quel mondo che ti riempie e che dà la
possibilità a chi fa questo lavoro, di riconciliarsi con se stessi e con la
propria arte. Non puoi prendere in giro il pubblico, non c’è chi ti aiuta con
il montaggio, con la luce, chi ti suggerisce cosa dovresti fare il momento
dopo. Questo è uno spettacolo particolarmente complesso dove viene
completamente abbattuta la quarta parete. E’ tutto frutto di una bellissima
collaborazione, di grandissimi consigli che Fares dall’alto della sua
esperienza mi ha dato degli input per quanto riguarda il mio personaggio che
sono stati illuminanti. Andiamo a raccontare la spettacolarizzazione della
sofferenza umana che un po’ va ad attingere a quell’istinto più basso dell’uomo
che è la cattiveria. Lo hanno già raccontato Balzac, Baudelaire e hanno sempre
detto che la cattiveria nell’uomo c’è e non si può togliere. Hanno bisogno di
sentirsi migliori. Anche se tutto ciò è insito nel Testo, cerco di farlo
arrivare al pubblico in maniera ancora più prepotente attraverso il mio lavoro
di attore. Peccato non possa arrivare a migliaia di persone o a milioni di
persone come succede con la televisione ma è comunque
bello all’indomani della rappresentazione, poter leggere dei commenti positivi
di persone che ci ringraziano di averli aiutati a riflettere. Va a rompere
quella malsana abitudine di accendere il televisore o qualsiasi altro mezzo e
sta lì quasi lobotomizzato da quello che sta vedendo.
So quello che accade dietro le quinte, diciamo che in qualche modo il mio personaggio è l’autore di qualcosa.
Quando Pigi dice che c’è un delinquente tra di noi, lui non si fa sfuggire
l’occasione per un momento di spettacolo. Quando la ragazza incinta cade, lui è
autore di ciò che sta mettendo in scena. Se la ragazza incinta deve rimanere in
gara il più possibile, lui cerca di farla arrivare fino in fondo e quando
decidono di mandarla via perché una donna in quelle condizioni non può rimanere
in gara, lui rimane male perché gli stanno togliendo la possibilità di poter
andare avanti con lo show. Tanto è vero che quando poi rimangono in gara le
ultime coppie li fa ballare ad oltranza. Ormai ha ottenuto il suo risultato,
non gli importa sapere chi vince ma di andare avanti il più a lungo possibile.
Elisabetta Ruffolo