Bruxelles, "Sylvia" al Théâtre National: fra cinema e palcoscenico, Fabrice Murgia lavora a una nuova lingua teatrale. La recensione di Fattitaliani

Fattitaliani
Negli anni '80, studentello palermitano catapultato nella ricchezza culturale di quella grande capitale europea che era Milano, mi trovai a vedere, per la prima volta in vita mia, delle messe in scena teatrali di Strehler; l'impressione fu talmente forte, talmente potente, talmente coinvolgente da lasciarmi senza parole, annegato nelle sensazioni che solo un teatro di quel livello può produrre: un caso di mutismo intellettuale da sovraccarico di emozioni. 

A distanza di trent'anni la stessa sensazione di muto stupore me l'ha data a Bruxelles il Teatro Nazionale, con una messa in scena magnifica: «Sylvia», pensata, coordinata, diretta da Fabrice Murgia: non ci sono parole per lodare lo straordinario talento di questo giovane regista belga, che ha voluto portare in scena la breve e forse infelice vita della poetessa americana Sylvia Plath;  lo respiriamo nelle sue poesie, lo intuiamo dalla sua fine.
La messa in scena di Murgia è semplicemente perfetta, magnificamente semplice e commovente malgrado l'enorme complessità della situazione da rappresentare - il mondo poetico di questa straordinaria donna, la sua difficoltà di trovare uno spazio nelle aspettative di una società declinata al maschile, la maternità, il rapporto con il marito, anche lui scrittore; abbiamo assistito a qualche cosa di grande: Fabrice Murgia, attraverso un sapiente mélange di musica, canto, recitazione, immagini ci ha fatto comprendere, ci ha fatto incontrare, ci ha fatto conoscere, ci ha fatto amare questa donna e ci ha fatto commuovere per il suo destino che ha reso plastico, visibile, tangibile; ci ha dato una commovente lezione sulla nostra umana fragilità, sulla difficoltà di comprendere l'altro, sulla difficoltà di affermare la propria identità al di là dei ruoli e del ruolo che la società ci impone, sulla difficoltà di trovarsi all'interno di una relazione, e l'ha fatto senza intellettualismi, senza dichiarazioni, senza polemiche, senza proclami.
Nelle mani di Murgia il mezzo cinematografico si mischia alla rappresentazione teatrale, amplicandone le possibilità di lettura. 
Ai gesti e alle voci delle fantastiche interpreti (nove attrici - Valérie Bauchau, Clara Bonnet, Solène Cizeron, Vanessa Compagnucci, Vinora Epp, Léone François, Magali Pinglaut, Ariane Rousseau, Scarlet Tummers - e una cantante - An Pierlé -di straordinaria bravura) si aggiungono le riprese dei loro gesti, dei loro volti, delle loro più minute espressioni.
Tanti registi aggiungono la ripresa al teatro ma si avverte quasi sempre lo stridore di un elemento estraneo; Murgia invece sta creando una nuova lingua, come già avevamo osservato nel suo precedente bellissimo «Menuet», dove cinema e teatro si sommano in un mix naturale, fluido, perfetto; la regia teatrale diventa nelle sue mani una regia cinematografica ma artigiana, che ad ogni rappresentazione va coodinata con la recitazione e con le riprese fatte precedentemente.
Siamo usciti commossi da quello che abbiamo visto, e con con un senso di malessere per la natura intrinseca del teatro che, a differenza del cinema o di oltre forme d'arte, non permette di conservare la sua magia in un supporto: come la vita, o come il fiore, esiste solo durante la sua rapprentazione e, in chi lo merita, ne resta solo un ricordo che lentamente svanisce. Giovanni Chiaramonte.
Foto di Hubert Amiel
Fino al 12 ottobre
Qui il calendario







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