Luca Guardabascio, regista,
sceneggiatore e scrittore campano, ci parla del suo cinema. Intervista di Andrea Giostra.
Ciao Luca, benvenuto
e grazie per la tua disponibilità. Se volessi presentarti quale artista della
settima arte ai nostri lettori, cosa diresti di te?
Un regista, un autore di
cinema, proprio come un antropologo, dovrebbe camminare per il Mondo, avere
grandi orecchie e occhi di meraviglia, prima di raccontare la storia giusta. Da
che ho memoria, mi interesso all’uomo e alla sua storia. La Storia, spesso,
viene fatta ad uso e consumo dei potenti, le altre storie, invece, quelle di
tutti noi, vengono tralasciate, per questo l’immagine, oggi, è il mezzo più
forte che una società possa avere, per raccontare quello che viene taciuto. Sono
sempre stato dell’idea che bisogna trovare nelle piccole storie un’espressione
d’infinito, solo in questo modo il pubblico potrà riconoscerle.
Mi approccio al cinema e alle
storie che racconto con piglio naturalista, in più sono da sempre un cinefilo,
divorare cinema aiuta a raccontare altro cinema.
Come definiresti il
tuo stile artistico? C’è qualche regista al quale ti ispiri?
Ho iniziato con un genere Il Marron, coniato ai tempi del mio
primo film Inseguito, 2002 (con Fabio Testi, Lidia Vitale, Nanni Candelari,
Daniele Natali) in cui fondevo il giallo all’italiana e il noir francese. Nel
cinema Marron c’è grande componente onirica (David Lynch), psicologica
(Hitchcock), e alla base molte menzogne (Kurosawa e Tarantino). Oggi, dopo
diversi esperimenti, faccio un cinema più sociale e realista come i miei
maestri Florestano Vancini e Giuseppe De Santis mi hanno insegnato. Lavorare
per la gente, per lo spettatore comporta grandi responsabilità; bisogna intrattenere
ma allo stesso tempo educare. Negli ultimi anni mi sono dedicato a diversi
documentari e a film come “Credo in un solo Padre” che hanno una forte
componente sociale. Credo di poter definire questo cinema “naturalista”
esaltando la letteratura di Émile Zola e attualizzando molte tematiche al
21esimo secolo, epoca di transizione, di crisi e per questo molto sofferta. Ho
dei miti, dei punti di riferimento, ma le lezioni dei grandi maestri le porto
sempre con me. Sono cresciuto con gli autori della Nuova Hollywood, di contro
ho amato gli attori italiani della commedia del boom. La lista è troppo lunga
ma i miei preferiti restano Totò e Nino Manfredi. Il Nino Manfredi regista è
qualcosa a cui aspirare, raccontare una storia come Per grazia ricevuta, è un
sogno che nutro sin da bambino. Con questa prima formazione “popolare” sono
cresciuto guardando tutto quello che arrivava ad Eboli e a Campagna le mia
città. Divoravo le notti dei Bellissimi di rete 4 e quelle di Fuori Orario su
Rai 3 registrandole su cassette da 240 minuti. Una volta raggiunta l’età della
“finzione” (o ragione) sono fuggito a Roma per studiare cinema e ho viaggiato
molto per approfondire quelli che considero i miei punti di riferimento: Werner
Herzog, John Cassavetes, Igmar Bergman, Theo Anghelopulos, Andrei Tarkovsky,
Oliver Stone, gli indipendenti americani da Morris Engel a Jim Jarmush.
Chi sono secondo te i
più bravi registi nel panorama internazionale? E con chi di loro vorresti
lavorare e perché?
Michael Haneke è sicuramente un genio perché ha creato una
piccola rivoluzione destrutturando la macchina cinema. È stata una rivoluzione come
quelle fatte da Orson Welles, Godard, Sergio Leone, Theo Anghelopulos,
Kusturica, Abbas Kiarostami, Paul Shrader. Per rispondere alla seconda domanda,
poter osservare Scorsese, Coppola, De Palma, Tarantino al lavoro sarebbe una
benedizione. Vorrei semplicemente vederli girare e magari starmene in un
angolo; la cosa più divertente però sarebbe avere una piccola parte in un loro
film, essere diretto da uno di questi grandi autori. Spielberg, infine, è re
Mida, mi piacerebbe seguirlo nel suo processo creativo, nel suo rapporto con le
altre professionalità. Non amo tutti i lavori di Spielberg ma possiamo restare
a parlare per giorni del padre di Et e de Lo squalo, finché esisterà il Cinema,
Spielberg ci sopravvivrà e sarà amato da tutte le fasce di età, proprio come
Walt Disney.
Se potessi scegliere
due attori e due attrici italiani contemporanei per un tuo film, chi sceglieresti
e perché?
Il cinema è un lavoro complicato, delicato, fottutamente
unico. Ogni film è una storia d’amore e spesso ti innamori di alcuni attori e
li fai crescere con te, fai un percorso di vita importante con loro. Del cinema
amo soprattutto i film in cui regista e attore trovano la quadratura del
linguaggio filmico e narrativo. Il regista e il suo doppio sono la base di film
straordinari: Truffaut–Leaud, Kurosawa-Mifune, Scorsese-De Niro, Herzog-Kinski,
Fellini-Mastroianni, Petri-Volontè, Wetrmuller-Giannini, Sorrentino-Servillo
per citare i più scontati. Non temo gli attori con un brutto carattere anzi, mi
piace riuscire a scoprire il loro mondo, il loro approccio ad un copione. Sul
set dell’ultimo film, “Credo in un solo Padre”, sono stato letteralmente
folgorato da quel grande attore che è Massimo Bonetti. Partivamo da una signora
sceneggiatura che ho scritto con l’autore Michele Ferruccio Tuozzo, ma il
processo creativo e identificativo, il transfert regista-attore-personaggio è
stato così autentico che con Massimo Bonetti ci siamo ripromessi di realizzare
un altro film insieme. Quindi il primo nome è il suo. Mi piacerebbe lavorare
con Valerio Mastandrea in una commedia all’italiana amara di quelle scritte da
Sonego, Scola, Brusati, Maccari per intenderci. Se dovesse avverarsi il
miracolo di realizzare una commedia di quel genere, e scritta “a mestiere”
(come diciamo in Campania), credo che Mastandrea possa essere il mio uomo
perché porta nello sguardo la malinconia del mondo che mi piacerebbe raccontare
e lavora per sottrazioni, proprio come Nino Manfredi. Abbiamo grandi attrici,
enormi, fenomenali ma credo che i nomi che girano siano sempre gli stessi.
Sull’ultimo film avevo un gruppo di attrici straordinarie come Anna Marcello,
Donatella Pompadour, Lucia Bendia, Anna Rita Del Piano, Maddalena Ischiale, Chiara
Primavesi, Silvia Bertocchi, Cloris Brosca, per citarne solo alcune, credo che
il cinema italiano debba sfruttare le diverse potenzialità che il mercato offre
e aprirsi alle sorprese. Però, per tornare a questo gioco, devo rispondere che
per il prossimo film, quello con Bonetti e Mastandrea, mi piacerebbe avere Jasmine
Trinca, Stefania Sandrelli, Sandra Milo (La visita di Pietrangeli è uno dei
miei film preferiti). Metterei come bonus Claudia Gerini, Sabrina Impacciatore,
Ennio Fantastichini, Diego Abbatantuono e Teo Teocoli. Perché? Perché pensavo a
loro quando ho scritto la sceneggiatura. Il mio gruppo di attori da Giordano
Petri a Claudio Madia, da Fabio Mazzari a Ludovica Ferraro, da Alessandro Paci
a Graziano Salvadori al mito Flavio Bucci, ovviamente, non li tradirò mai.
Siamo un bella famiglia.
Quanto è importante
nel cinema lo studio e la disciplina? Perché secondo te, un giovane che volesse
lavorare nel mondo del cinema deve studiare, perfezionarsi e fare esperienza?
Da diversi anni insegno cinema e lavoro anche in America dove
ho realizzato diverse opere di finzione e non. Il cinema negli Stati Uniti è un
mestiere, le regole sono ben precise e tu, regista, sei un numero, una pedina,
un ingranaggio di una catena interminabile. Oltre oceano tutto funziona alla
perfezione perché hai avuto tempo per prepararti, soldi per discuterne e non
fretta di concludere e improvvisare. In Italia fare cinema è un’ambizione che
si tramuta spesso in tentativi perché non sempre la macchina riesce a girare
nel modo in cui vorresti e questo è un peccato perché non leggo, se non in
rarissimi autori, una vera poetica. Una poetica che non è generata da una
situazione creativa (scriviamo spesso i migliori copioni al Mondo) ma dalla
carenza di una messa in scena produttiva e dalle regole distributive che hanno
penalizzato per anni film che invece avrebbero avuto incassi, durata e
commerciabilità internazionale. Il 60 % dei film italiani seguono uno schema
stantio, non vendibile all’estero, l’altro 40% sono capolavori, di questo 40%
almeno la metà rappresenta un miracolo produttivo. Io credo nella politica
degli autori, credo nella Nouvelle Vague e solo con lo studio e con la
conoscenza del cinema, di tutto il cinema, si possono realizzare i miracoli. Il
mio film “Andrea Doria: I passeggeri sono in salvo?”, prodotto da Pierette
Domenica Simpson, è stato quel tipo di miracolo, proiettato in 42 paesi, e che
ora sta facendo il giro dei musei come l’Heinz History Center gemellato con lo
Smithsonian. Quel film è un classico da museo, è stato visto da quasi due
milioni di persone e lo abbiamo distribuito da soli. Grazie a questo film, in
alcuni paesi, ho potuto proiettare anche il mio pacchetto di film e documentari
prodotti in precedenza, e addirittura nel 2019 Stati Uniti e Brasile mi hanno
chiesto una retrospettiva. Bisogna sudare però, essere sempre sul pezzo, con la
valigia pronta, trovare piccoli sponsor, non fermarsi davanti a nessun
ostacolo. Bisogna guardare di tutto, persino la televisione, da che faccio
cinema in maniera più professionale, leggo molti più libri e ascolto di più la
radio perché non bisogna mai smettere di immaginare, far viaggiare la fantasia,
espandere il proprio linguaggio, ampliare la conoscenza. Solo l’immaginazione
può creare grandi immagini e tradurre un piccolo pensiero in un film. Da che
lavoro anche in USA, ho capito che chi fa cinema, chi riesce a realizzare sogni
è perché ha tanto studiato, ha sacrificato la propria vita per quello scopo. So
che è difficile ma quando si sa cosa si vuole, si riesce ad ottenere dei
risultati. Per usare una metafora, se hai la testa dura e la batti contro il
muro, prima o poi lo sfondi.
Chi sono stati i tuoi
maestri?
Oltre ai miei nonni ed ai miei genitori che mi hanno educato
ad amare ogni forma d’arte, i miei primi ricordi sono sulle ginocchia di Nino
Taranto che mi raccontava di come, per interpretare un ubriaco, ci volesse
grande tecnica; avevo circa 5 anni e ripenso a quell’incontro come a qualcosa
di seminale. Un ubriaco? Una cosa semplicissima per un clown ma non per un
attore di cinema o di teatro che deve trasferire il sentimento che una
sceneggiatura (drammaturgia) e una regia richiedono. Quella è stata la mia
prima lezione di spettacolo. Ho avuto la fortuna di conoscere e lavorare con
grandi maestri, chi mi hanno segnato anche umanamente e, tra tutti vorrei
citare Giuseppe De Santis, Florestano Vancini, Nino Manfredi, Antonio Capuano,
il compositore Mike Stoller, il regista Allen Baron, lo scrittore William
Hjortsberg e il produttore David Chase; ognuno di loro mi ha istillato qualcosa
di fondamentale e unico per la mia formazione.
Alcuni programmi
televisivi italiani fanno passare l’idea che per diventare artisti o attori,
basta solo avere fortuna ed essere lanciati dalla “notorietà social o televisiva”. Tu che ne pensi di
questo fenomeno?
Alla base c’è un problema di educazione e di rispetto per una
professione che in molti non considerano tale. Si fa credere da troppi anni che
l’artista sia un gigolò ad ore, un pranzo fast food. L’artista non fa i soldi
facili, l’artista è, cito il dizionario Sabatini: “chi esegue il
proprio lavoro con una perizia tale da raggiungere risultati unici.”
Di talento in giro e in tv ce n’è tanto ma di veri artisti ne vedo pochi. Quando
fai un provino ad un attore la differenza la noti subito, a meno che tu non
stia cercando una determinata faccia. Non sono contro i fenomeni perché è la
storia del Mondo quella di essere sempre contro qualcosa, ma sono certo che la
qualità da social o, il carattere di
chi non si è sudato la pagnotta, sia nettamente inferiore. Purtroppo, il mood social è in crescita ma poi, per
tornare ai miracoli, siamo tutti felici quando Marcello Fonte vince Cannes e
per questo viva il Cinema.
Quanto è importante
la sceneggiatura in una produzione cinematografica? Chi sono, dal tuo punto di
vista, gli sceneggiatori contemporanei più bravi?
Senza una buona sceneggiatura non può esserci un buon film.
Un’ottima sceneggiatura racchiude tutte le possibilità per rendere ottimo un
film. Personalmente in sceneggiatura inserisco sempre la mia idea di linguaggio
senza essere troppo invasivo per poter condividere sin da subito con attori e
tecnici l’atmosfera (anche visiva) di un’opera e poter lavorare meglio sul set.
Devo dire che Niccolò Ammaniti sa fare bene il suo lavoro, le storie di
Giuseppe Tornatore però hanno sempre una marcia in più, Paolo Sorrentino è un grande
autore, un grande regista però penso che abbia scritto le sue sceneggiature
migliori da L’uomo in più a L’Amico di famiglia, poi, inevitabilmente, ti lasci
rapire da qualcosa di troppo magico che si chiama autorialità registica e non
ritrovi più la storia perfetta in sceneggiatura. Ivan Cotroneo è sicuramente
uno dei migliori sceneggiatori italiani, al momento.
Come è nata la tua
passione per la settima arte?
Ho iniziato come attore e scrittore, ho avuto la fortuna di
veder pubblicato il mio primo libro di favole a 7 anni, a 13 anni mi è stata
regalata la mia prima telecamera e dal 1989 al 1995 ho realizzato circa 150
film in Home video con parenti e amici, spesso parodie alla Franco e Ciccio che
venivano piratate e giravano con il passaparola raggiungendo migliaia di
persone. In quegli anni vivevo tra l’edicola sotto casa e la videoteca in
piazza. Tra i 14 e i 19 anni sono arrivato a girare un paio di Home movies al
mese e a vedere una decina di film al giorno, appuntavo tutto su un quaderno. Se
leggo del 27 luglio 1991, ad esempio, passo da Il pirato sono io con Erminio
Macario, a Grazie Mr. Moto con Peter Lorre, da Re per una notte di Scorsese a
Due figli di … con Steve Martin e Michael Caine, per concludere con Manhattan
Baby di Lucio Fulci e il documentario Lettere dal Vietnam. Per non contare i
telefilm che andavano in onda la notte, che palestra indispensabile sono stati!
Ai confini della Realtà, l’Ora di Hitchcok e Hitchcok presenta, gioielli che
ogni cineasta dovrebbe sempre avere oggi sul … lo smartphone J. È un po’ la storia di
Quentin Tarantino, vivere per amore del cinema, sempre. Fare esperienza
all’estero, avere una visione internazionale, può aiutare molto a fare film in
Italia.
Perché secondo te
oggi la settima arte è così importante e va promossa e seguita da tutti?
Il cinema racchiude tutte le arti appunto e i capolavori
dovrebbero essere studiati come la Divina Commedia. Se prendiamo un film di
Igmar Bergman, di Fellini, di Bresson, di Kurosawa, di Sergio Leone, di Orson
Welles, di Chaplin, Kubrick, di Michelangelo Antonioni, di Luchino Visconti, che
sono opere d’arte riconosciute, abbiamo gioco facile. In alcuni film non
esistono solo il senso letterale, allegorico, morale e anagogico (presente in
molti film da Aguirre furore di Dio a Guerre Stellari), il cinema ha un senso
interpretativo, poetico, linguistico, musicale, filosofico, attuale, storico,
ambientale, sentimentale, identificativo ecc… perché il cinema è Arte e come
tale dovrebbe essere studiata e seguita. Solo il cinema e la musica, solo
l’immagine in movimento e i suoni possono riavvicinare lo studente alle altre materie.
E tutto è stato e sarà raccontato dal cinema. Sono molto felice del lavoro
culturale che fa oggi la televisione e sono convinto che ci sono opere
televisive che possono essere sezionate, analizzate e studiate in classe.
Bisogna però trovare professori che conoscano la materia Cinema ed evitare
quelli che credono sia solo intrattenimento. Quattro ore di Cinema a settimana:
teoria più pratica, renderebbe questo paese più propenso a comprendere la
cultura dalla preistoria ai giorni nostri. Il cinema non può essere relegato ad
ore extracurriculari perché i film avvicinano gli studenti alla letteratura,
alla filosofia, alla storia, all’epica, alla geografia, alla matematica.
Qual è il ruolo della
critica cinematografica oggi? Quale dovrebbe essere a tuo parere il suo vero compito
per promuovere la cultura della settima arte?
Non dare voti, non fare sintesi ma rivedere un film che è
piaciuto o un altro che è piaciuto meno, prima di dare stelline. Non tutti
hanno la “dirompente” padronanza di sintesi del Rivette critico, ma quella era
un’altra epoca. La critica oggi non ha tempo di andare al cinema e, ci sono
alcuni giornalisti che saltano da un multisala all’altro prendendo informazioni
e pareri generici. La colpa non è della critica ma della soglia di attenzione
di editori e di alcuni lettori. Il critico cinematografico, quello vero,
dovrebbe sapere che non tutti leggeranno la sua critica, ma chi scrive una
critica dovrebbe anche sapere che quelle critiche sintetizzate in un tweet non
rendono giustizia ad un film (bello o brutto), né al nome del critico. Io suggerirei
di rimandare il lettore al web dove potrebbe esserci qualcosa di più
approfondito. Alla base c’è però un fenomeno distributivo, i critici bontà
loro, sognano tutti di poter scrivere come i Chaiers du Cinema e lo dico perché
anche io ho scritto di cinema, ma l’imperativo era sempre “Taglia! Taglia!
Taglia!” Quindi i critici li amo e li seguo con attenzione, però bisognerebbe
trovare una formula per parlare di film belli e film brutti in maniera
sintetica ma precisa. Mi piace molto seguire le critiche dei film presentati ai
festival perché non hanno ancora delle dinamiche distributive e sento la
critica più libera di poter osare. La distribuzione, invece, dovrebbe
comprendere maggiormente le potenzialità dei film, anche quelli che non hanno
grandi nomi in cartellone. Solo con una distribuzione più attenta ed un mercato
più libero, si potrà promuovere la settima arte.
Seconde te Luca, è
importante partecipare a Festival del Cinema? Oggi in Italia ce ne sono
tantissimi, non tutti di qualità, alcuni organizzati molto bene. Per chi fa
cinema o scrive di cinema, a cosa serve partecipare ad un Festival del Cinema?
Come ho detto per la critica, spesso grazie agli umori di un
pubblico presente in un grande festival, puoi capire realmente il valore del
tuo lavoro. Partecipare ad un buon festival è una gran bella sfida, secondo me
irrinunciabile per un autore che vuole comprendere davvero di che pasta sia
fatta il proprio cinema.
Ci parli dei tuoi
ultimi lavori e dei lavori in corso di realizzazione?
Da qualche giorno abbiamo concluso le riprese di “Credo in un
solo Padre” un film che viene da due anni di preparazione e che ho scritto con
Michele Ferruccio Tuozzo. Il film affronta il tema della violenza domestica,
della violenza contro le donne, dell’omertà di paesi in cui tutti sanno e
nessuno parla. Un film che parla del male del nostro tempo: l’assenza di
empatia. Un film che è una pugnalata al cuore, una storia che ti mangia l’anima
perché’ narra di una doppia violenza perpetrata da un nonno nei confronti della
nuora e della nipotina di soli 5 anni. Un film crudo, realista, necessario,
dove anche i ruoli da commedia hanno quella struttura amara che amo tanto. Un
film girato tra la provincia di Salerno e la provincia di Arezzo. La fortuna
vera è stata trovare produttori e associati che hanno creduto in un progetto
del genere tra tutti Stefano Misiani dell’Around Culture, Gianni Pagliazzi,
Domenico Elia, Gigliola Pessolano, Pietro Deo, Franco Della Posta. Insieme, e
grazie al lavoro di donne vittime di abusi e violenza, presenti anche sul set,
di un pool di psicologhe e di tanti amici, abbiamo fatto un grandissimo lavoro.
Non vedo l’ora di montare il film e spero di poter partecipare ad un festival
importantissimo prima della distribuzione nelle sale. Sto lavorando anche ad un
documentario antropologico che deve molto a Ernesto De Martino e Luigi Di
Gianni dal titolo “Scorzamauriello: tra mito e tradizione” patrocinato dal
comune di Eboli e prodotto da Le tavole del Borgo con protagonista Claudio
Madia, è la storia del Munaciello “folletto” buono o dispettoso, una storia
bellissima. Con il produttore Gianni Pagliazzi stiamo anche realizzando un
piccolo documentario sportivo sulla favola dell’Arezzo calcio che, in
bancarotta e con 18 punti di penalizzazione, si è salvato grazia ad un
movimento popolare, ad una città bellissima, alla voglia dei calciatori e del
mister di restare nella storia, alla scommessa del patron Giorgio La Cava. Il
titolo sarà “Arezzo. Il calcio che sognavo da bambino” che è una frase del
bomber Davide Moscardelli pronunciata il giorno dopo la salvezza. Infine, il
Mibact ci ha anche consentito di sviluppare la sceneggiatura di un film
sull’Andrea Doria: La verità Nascosta che dovrebbe avere un cast
internazionale. È un film molto costoso ma credo riusciremo a trovare i fondi
in un paio d’anni. Nella primavera del 2019 in America il regista Michael Di
Lauro girerà un film scritto da me “A smell of Garlic” una storia toccante di
demenza senile ambientato in una little Italy sospesa da realtà e
immaginazione, un film complesso che parte dalla Bari della Seconda guerra
mondiale e arriva alla Pittsburgh del 2007. Il protagonista dovrebbe essere
Chazz Palminteri. Nel 2019 uscirà il mio prossimo libro ambientato In Laos. Ah…
mi piacerebbe realizzare una Commedia Amara dal titolo “Il passeggero” (n.b.
quello con Valerio Mastandrea) con un buon budget oppure continuare sulla
direzione sociale con un film indipendente dal titolo “Urlamò” che potrebbe
essere il secondo film della trilogia del Padre iniziata con “Credo in un solo
Padre”. Spero però che il film in uscita tra qualche mese possa educare e
cambiare qualcosa contro la violenza domestica, solo così avremo raggiunto un
grande traguardo.
Immagina una
convention all’americana, Luca, tenuta in un teatro italiano, con qualche
migliaio di adolescenti appassionati di teatro e cinema. Sei invitato ad aprire
il simposio con una tua introduzione di quindici minuti. Cosa diresti a tutti
quei ragazzi per appassionarli al mondo della recitazione, del teatro e della
settima arte? Quali secondo te le tre cose più importanti da raccontare loro sul
cinema?
Ho fatto delle convention in America mentre la gente
mangiava, e ho visto conferenzieri che non riuscivano a distogliere i
commensali dal loro piatto di chicken parimigiana. Beh, è stata una bella sfida
e sai come li ho conquistati? Raccontando di me, della mia infanzia, delle mie
passioni, del fatto che il mio lavoro fosse il sogno che nutrivo da bambino
quando per non pagare il biglietto mi intrufolavo durante l’intervallo e
partivo vedendo prima il secondo tempo di un film, poi il cartone animato, poi
il documentario o la comica di Stanlio e Ollio o Harold Lloyd e infine il primo
e il secondo tempo del film. Del Marchese del Grillo ricordo di aver visto per
3 volte il secondo tempo perché la gente sporcava così tanto la sala in quanto
presa dagli scherzi di Sordi che a fine film bisognava ripulirla e io venivo
messo puntualmente alla porta. Nel vedere quei secondi tempo ridevo ma non
capivo alcune cose, tipo perché a quell’incredibile Don Bastiano (Flavio Bucci)
tagliavano la testa. E poi per anni ho cercato di capirne le premesse finché
nel 1985 non vedo il film in televisione. In tv noto anche il fatto che Don
Bastiano sia stato l’unico a tener “testa” al Marchese e mi dico, un giorno
lavorerò con Don Bastiano. Dopo circa 40
anni arrivo a fare dei film e sul set mi ritrovo l’incredibile Don
Bastiano-Flavio Bucci e comprendo che Ogni cosa è illuminata. Prossimamente
spero di ritrovare su un mio set Frank Serpico (Al Pacino) , Travis Bickle
(Robert De Niro), Tony Manero (John Travolta) o
Julian Kay (Richard Gere)
Dove potranno
seguirti i tuo ammiratori e i tuoi fan?
Non credo di avere ammiratori o fan, soltanto tanti amici a
cui voler lasciare un metodo, una poetica sociale e antropologica che passa e
cresce di film in film. Il web, se usato con raziocinio e curiosità, è uno
strumento fondamentale, quindi dico ai miei amici di digitare semplicemente il
mio nome su internet, qualcosa di nuovo apparirà perché io non riesco a stare
fermo così come non riesco ad avere quelle pagine in cui obblighi la gente a
cliccare “mi piace”.
Luca Guardabascio
Andrea
Giostra
https://andreagiostrafilm.blogspot.it
https://business.facebook.com/AndreaGiostraFilm/