Manager? Sì ma del settore pubblico, per favore

Leggo l’articolo di un americano che sa il fatto suo. Il pezzo, ben supportato da cifre e casistica, parte da una notizia: la vita media delle aziende private, che una volta era di una cinquantina d’anni, si è progressivamente ridotta fino alla ventina dei giorni d’oggi, e presto sarà di dieci. 

Il motivo? L’incapacità del management di adeguarsi velocemente a cambiamenti sempre più rapidi e rivoluzionari, ma soprattutto l’incapacità di causare quei cambiamenti che, in un mercato sempre più difficile, assicurano la sopravvivenza e, possibilmente, la crescita.
Secondo lui, i top manager di moltissime aziende ben consolidate si aspettano che le nuove idee vengano dall’interno; però poi non ne stimolano adeguatamente la nascita e, a quelle che vengono comunque alla luce, oppongono una elevata “viscosità” che ne ostacola la realizzazione. 
Il giornalista conclude invitando i manager delle aziende a coltivare una sana ansia che li aiuti a cogliere i cambiamenti esterni e a favorire la nascita di nuove idee; quando possibile, delegandone addirittura la produzione a strutture satelliti “fuori dal palazzo”, piccole, agili e svincolate da ogni burocrazia. Uffici informali con giovani creativi che girano in maglietta e magari in pantofole, non in giacca e cravatta. 

L’articolo mi piace anche perché – confesso l’umana debolezza – riprende, in modo aggiornato e circostanziato, qualcosa che ho sempre detto ai miei collaboratori: “Fate attenzione ai manager che hanno fatto grandi cose, perchè a un certo punto molti di loro diventano un pericolo per il futuro dell’azienda: si illudono di avere trovato la formula giusta e immutabile del successo e perdono interesse nell’innovazione. Quando un’idea radicalmente nuova è proposta da altri, tendono a ignorarla, e talvolta ne sono persino infastiditi come se fosse un attacco alla loro gestione. Ricordatevelo: il successo è un bersaglio mobile”. 

Non mi sorprende perciò affatto che tante aziende ritenute incrollabili declinino, spiazzate da altre che, affamate e capaci di pensare fuori dagli schemi, cambiano le regole del gioco o scoprono/creano nuovi bisogni del mercato da soddisfare. 
Dopotutto è quello “Stay hungry, stay foolish” che è il cuore del famoso discorso di Steve Jobs agli studenti dell’Università di Stanford.

Mi sorprendo a sorridere. Un sorriso amaro, in realtà, perché mi sono venuti in mente i responsabili della cosa pubblica, quei politici e dirigenti che dovrebbero concepire e  realizzare i piani per il futuro della nostra società. 
Quanta dfferenza con i manager del settore privato...
Nelle aziende veramente private (quelle in cui non intervengono coperture politiche, per intenderci) i manager sono uomini che pur avendo dimostrato il loro valore, sanno che non si potranno mai sedere comodi sul proprio successo, perché sotto c’è una botola pronta a inghiottirli al primo grosso errore. Gente che deve essere brava ogni giorno, di nuovo e di più; e che per riuscirci deve sapere ascoltare molto, incoraggiare le nuove idee e accettare il fatto che i cambiamenti, anche se non piacciono, sono parte della vita di una azienda – e di un manager – che vuole continuare a crescere. 
Nella gestione della cosa pubblica impera al contrario la versione in negativo del manager privato. 
Un esercito di persone che – non sempre, ovviamente, ma troppo spesso – invece di successi producono disastri. Dalla sanità alla viabilità, dalla gestione dei rifiuti ai trasporti e all’acqua potabile, dai rapporti con il contribuente alla manutenzione di ville e giardini, al problema dei parcheggatori e commercianti abusivi. Gente che mostra candido stupore o si arrampica sugli specchi tutte le volte che Striscia la Notizia, Le Iene o la Magistratura scoprono loro collaboratori che strisciano il badge di decine di colleghi (ma come fanno a non accorgersi di tante assenze?). O che tiene un impiegato disabile a rigirarsi i pollici a rischio di un esaurimento nervoso nonostante le sue suppliche perché gli sia dato qualcosa da fare. Oppure responsabile della costruzione, con i nostri soldi, di costosissime strutture mai terminate o, peggio, ultimate e lasciate in pasto ai vandali. O che non riesce a spendere miliardi di fondi messi a disposizione dall’Unione Europea.
Insomma, dirigenti che non dirigono o dirigono male, responsabili-non responsabili che un normale datore di lavoro avrebbe già licenziato e che invece prosperano, praticamente intoccabili, a spese di Stato/Regioni/Comuni. E quindi – lo sappiamo, ma non è male ricordarlo – a spese nostre. Persone sedute ben comode su poltrone sotto le quali non c’è alcuna botola pronta ad aprirsi, perché nessuno li punisce, anzi spesso godono di premi e incentivi di fatto svincolati dai risultati (da quelli veri). Gente che ha capito benissimo che essere bravi non serve: nessuno lo pretende, quindi al diavolo la “sana ansia”, al diavolo l’ascolto, al diavolo le nuove idee. Quanto agli scomodissimi cambiamenti, solo i pazzi li desiderano, e loro pazzi non sono. 
Certo, in questo modo uno Stato, una Regione, un Comune non solo non può stare al passo con i tempi, ma non riesce proprio a funzionare; e quindi i cittadini amministrati, oltre a vivere male, si trovano privati di vere opportunità di crescita. Il lavoro diminuisce, e i giovani più scolarizzati che, grazie all’aiuto dei genitori, o perché decidono di sobbarcarsi altri sacrifici, possono andarsene, se ne vanno; fra chi rimane, pochi fortunati si “sistemano” all’interno di attività di famiglia o di amici, o acchiappano un posto dignitoso nel settore pubblico; pochi altri riescono a trovare una occupazione decente nel privato. Ma una grande quantità di ragazzi, quelli che non hanno l’opportunità o il coraggio di andarsene, né la fortuna di una attività di famiglia né quella di “vincere” un posto pubblico né di trovare, o inventarsi, una attività nel privato che gli consenta di vivere, rimangono a subire la situazione: sono  i disoccupati, i precari e i sottopagati, che fanno la fine dei pesciolini in un acquario in cui le mani che versano l’acqua e il mangime sono sempre meno generose. Per loro c’è solo la disperazione immediata o, nel frequentissimo caso in cui ricevano un aiuto economico dai genitori, differita a quando questi non ci saranno più. 

Ma questi sono problemi che non toccano chi li ha causati: perché se nel settore privato – e ribadisco: veramente privato  – i manager che non producono i risultati per cui vengono pagati, vengono licenziati, nel pubblico questo non succede. 
Una bella fortuna.

Manager? Sì ma del settore pubblico, per favore.

Carlo Barbieri

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Carlo Barbieri è uno scrittore nato a Palermo. Ha vissuto a Palermo, Catania, Teheran, il Cairo e adesso fa la spola fra Roma e la Sicilia. Un “Siciliano d’alto mare” secondo la definizione di Nisticò che piace a Camilleri, ma “con una lunga gomena che lo ha sempre tenuto legato alla sua terra”, come precisa lo stesso Barbieri. Scrive su Fattitaliani, Ultima Voce e Malgrado Tutto, testata a cui hanno collaborato Sciascia, Bufalino e Camilleri. Ha pubblicato fra l’altro le raccolte di racconti “Pilipintò-Racconti da bagno per Siciliani e non” e "Uno sì e Uno no" (D. Flaccovio Editore); i gialli “La pietra al collo” (ripubblicato da IlSole24Ore) e “Il morto con la zebiba” (candidato al premio Scerbanenco 2015), ambedue con Todaro Editore ; "Il marchio sulle labbra" (premiato al Giallo Garda), "Assassinio alla Targa Florio" e "La difesa del bufalo, tutti e tre con D. Flaccovio Editore. Suoi scritti sono stati premiati al Premio Internazionale Città di Cattolica, al Premio di letteratura umoristica Umberto Domina, al Premio Città di Sassari e al Premio Città di Torino. I suoi libri sono reperibili anche online, in cartaceo ed ebook, su LaFeltrinelli.it e altri store.
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