Noi, figli di Abramo

I due luoghi più santi sono la spianata del tempio (Haram al-Sharif), a Gerusalemme, dove Abramo approntò il sacrificio del primogenito, e la caverna Macpela, a Hebron, dove si trova il suo sepolcro. Sono stati e continuano ad essere  terra contesa, violentata, insanguinata. Spesso gli attentati più feroci avvengono in questi due luoghi. Sono i luoghi strettamente legati ad Abramo, il patriarca delle tre religioni monoteiste, ebraismo-cristianesimo-islam.

Come spesso accade, anche la lezione di Abramo sembra incompresa, manipolata, strumentalizzata. Le tre religioni hanno cercato di appropriarsi di Abramo, facendone il patriarca, il capostipite,  ma  non sembra abbiano colto il senso della sua fede. Il problema quindi non sta nella fede “in”Abramo, ma nella fede “di” Abramo.  
Pascal, lanciando una condanna inappellabile contro il “dio dei filosofi e degli scienziati” scrive: “Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, il Dio dei Cristiani è un Dio di amore e di consolazione: un Dio che riempie l’anima e il cuore di coloro che possiede”. 
Dio è dimostrabile solo in forza dell’Amore. Le prove, a posteriori o a priori,  dell’esistenza di Dio sono elaborazioni mentali. Kant, nella “Critica della ragion pura”  dimostrerà la fallacia di tali prove. Ma tra i postulati della Ragion pratica ritiene necessario ammettere l'esistenza di Dio come esigenza morale, in quanto Dio rappresenta il Sommo Bene originario ed è quindi garanzia dell'accordo tra felicità e virtù. Con un atteggiamento di trepidazione, nell’opera “La religione entro i limiti della ragione”, Kant scrive: «Per quanto le mie parole possano sorprendervi, non dovete biasimarmi se affermo: “Ogni uomo crea il proprio Dio” […] anche voi dovete creare il vostro Dio, per venerare in Lui il vostro creatore ». 
E non sembri esagerato che a distanza di circa quattromila anni, la testimonianza di Abramo e la lezione di Kant si intreccino meravigliosamente. Abramo rifiuta l’idea di un Dio da saziare con sacrifici umani. La sua idea di Dio si differenzia sostanzialmente da quella delle altre  popolazioni: keniti, kadmoniti, hittiti, amorrei, cananei, gergesei, ecc. (Gen. 15,18-19). Egli stabilisce un’alleanza con il suo Dio, che gli dice “Alla tua discendenza io darò questo paese” (Gen. 12,7). Lo stesso Dio gli cambierà il nome:  “Eccomi, la mia alleanza è con te e sarai padre di una moltitudine di popoli. Non ti chiamerai più Abram ma Abraham, perché padre di una moltitudine di popoli ti renderò” (Gen. 17,4-5). 
Kierkegaard, in “Timore e tremore”, fa l’elogio di Abramo, affermando: “Nessuno sarà dimenticato di quelli che furono grandi… ma chi amò Dio… chi sperò l’impossibile… chi lottò contro Dio… chi credette in Dio…  fu il più grande di tutti”.  
Nella seconda sura del Corano è scritto: “Dichiarano: siate ebrei, siate cristiani, sarete nella giusta via. No. Seguite il credo di Hibrahim, come hanif. Non è stato tra coloro che hanno creato delle condivinità” (135). L’affermazione coranica pone in rilievo l’essenza della lezione di Abramo, come hanif, cioè come colui che, pur non riconoscendo le divinità del suo tempo,  non ha creato  altre divinità.  Secondo alcuni interpreti, il termine “hanif” è di origine sabea e significa “seguace di una religione essenziale: né ebraica, né cristiana, né musulmana”.
Abramo, non avendo figli da  Sara, metterà incinta Agar, la schiava egiziana, che partorirà Ismaele. In seguito anche Sara resterà incinta e darà alla luce Isacco. Secondo il Corano è Ismaele, figlio di Agar e  primogenito di Abramo, ad essere offerto in sacrificio. Per la Bibbia è invece Isacco, il figlio di Sara. Condotto sul monte Moria, sulla rocca di  Gerusalemme, il bambino (Isacco o Ismaele) non fu comunque ucciso, quale vittima sacrificale alla Divinità.  Al momento del colpo di coltello da assestare sul bambino, si ode la voce dell’angelo: “Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male” (Gen. 22,12). Forse, più razionalmente, non fu la voce d’un angelo che fermò la mano di Abramo.  Fu la voce  della sua coscienza. Una coscienza che lo aveva reso consapevole d’un’idea di Dio, diversa dalle altre. Era il “Suo” Dio. Un Dio che non chiedeva sacrifici umani, ma la disposizione del cuore, perché la Fede non ha bisogno di prove. Nel comportamento di Abramo, in cui la fede si essenzializza collegandosi alla ragione, sembra realizzarsi una sintesi perfetta. Fede che non entra in contrasto con la ragione (scienza), anche quando vengono posti in discussione princìpi fondamentali. E’ la posizione di Sagredo nel “Dialogo sopra i due massimi sistemi” di Galilei, che resta l’analisi più appassionata e profonda del rapporto scienza e fede. 
Nella religione ebraica Dio è ineffabile, indicibile. Il suo nome “YHWH” era pronunciato solo una volta l’anno, nel Sancta Sanctorum del tempio, dal sommo sacerdote. Era il nome che Mosè aveva ricevuto sul Sinai, alla consegna delle tavole della Legge: “Io sono Colui che sono”. Erich Fromm, in “Voi sarete come Dei”,  scrive: «La traduzione libera della risposta di Dio a Mosè sarebbe: ‘Il mio nome è Senzanome; di’ loro che Senzanome ti ha mandato’ ».  
L’elaborazione teologica più profonda è stata operata da Dietrich Bonhoeffer, pastore protestante giustiziato pochi giorni prima del suicidio di Hitler. Bonhoeffer, soprattutto nell’opera   “Resistenza e resa”, ha posto in risalto il paradosso di vivere con Dio senza Dio. “Dio ci dà a conoscere che dobbiamo vivere come uomini capaci di far fronte alla vita senza Dio. Il Dio che è con noi è il Dio che ci abbandona (Mc.15,34)”. 
E come lui, un altro testimone, Hans Jonas, filosofo e sociologo ebreo, in una famosa conferenza sul tema “Il concetto di Dio dopo Auschwitz”, alla domanda “Dov’era Dio?”, risponde: «Il male c’è in quanto Dio non è onnipotente».   Per i credenti una simile risposta non può che risultare blasfema e quindi inaccettabile. Ma Jonas prosegue: “Affinché il mondo fosse e fosse per se stesso, Dio deve aver rinunciato al proprio essere; deve essersi spogliato della propria divinità per riaverla di nuovo nella odissea del tempo”. 
Le espressioni di Jonas sono molto simili a quelle di Paolo di Tarso nella Lettera ai Filippesi: “Cristo Gesù, pur essendo di natura divina non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio,  ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo” (2,6-8). Gli esegeti ritengono che si tratti di un antico inno, riportato da Paolo. Ma l’idea della “kénosi” (dal verbo greco  “ekénosen”, che significa appunto “spogliarsi, svuotarsi, privarsi”) è così sconvolgente che oscura ogni possibile idea di Dio. Perché un Dio che si annienta è un Dio inconoscibile. Un Dio-Nulla. 
Oggi è in atto un vero “scontro di civiltà”, di cui ha parlato, già da tempo,  il sociologo e politologo americano Samuel Huntinghton. Nel suo famoso libro, dal titolo “Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale”,  pubblicato in Italia nel 1997,   Huntington riporta tabelle statistiche dalle quali si rileva che, durante il secolo appena trascorso, i Cristiani nel mondo sono passati da una percentuale del 26,9 al 29,9, mentre i Musulmani dal 12,4 al 19,2 e quelli che dichiarano di non  seguire nessuna religione dallo 0,2 al 17,1. L’avanzata dell’Islam (+6,8 %) è più che doppia rispetto all’avanzata del Cristianesimo (+3%). Il fantasma dell’islamizzazione dell’Occidente, soprattutto dopo il crollo delle torri gemelle di New-York e i numerosi attentati terroristici hanno creato l’incubo dell’accerchiamento. L’Islam viene sempre più identificato con la jihad, la guerra santa.  Huntington scrivendo: “I confini dell’Islam grondano sangue, perché sanguinario è chi vive al loro interno”, non lasciava nessuna speranza per un dialogo interreligioso e interculturale, ritenendo che “una guerra planetaria che coinvolga gli stati guida delle maggiori civiltà del mondo è altamente improbabile ma non impossibile”. Oggi, venti anni dopo, questa guerra planetaria è in atto. Una guerra, che anche intellettuali e filosofi del mondo arabo hanno presagito. 
Mohammed Arkoun, un filosofo musulmano algerino, ritiene  che il pensiero arabo contemporaneo sia diventato una “idéologie du combat” (ideologia da battaglia) perché è necessario  risolvere i problemi economici e politici degli Stati arabi.  Un altro intellettuale, Malek Bennabi, ricorre alla dialettica hegeliana signore/servo, secondo la quale il servo prende coscienza della sua condizione  e si riscatta. C’è addirittura  una teologia islamica della liberazione, che interpreta il Corano in chiave marxista-rivoluzionaria, presentata da intellettuali come l’egiziano Hasan Hanafi e il sudafricano Farid Esack. 
Gilles Kepel, uno dei maggiori studiosi ed esperti di cultura islamica, autore di varie opere sull’argomento, ha scritto: “La parola d’ordine è diventata: bloccare il laicismo. Non si tratta più di un aggiornamento, ma di una rievangelizzazione dell’Europa, non più modernizzare l’Islam, ma islamizzare la modernità”. 
Nell’Islam non c’è stato l’Illuminismo né è pensabile la separazione tra politica e religione, tra Stato e Comunità religiosa. Solo il miglioramento delle condizioni socio-economiche e una maggiore collaborazione a livello planetario potranno aprire nuove strade ad una globalizzazione dal volto umano. 
L’Islam non ha avuto un Lutero né un Copernico o Galilei, ma ha avuto grandi personalità di religione e di scienza, promotori di pace e di cultura. Jack Goody, docente a Cambridge e antropologo di fama mondiale, deceduto qualche anno fa, chiude il libro “Islam ed Europa” con queste parole: “I musulmani sono parte integrante dello scenario europeo”. 
Uno scenario ancora tutto da costruire, solo se religioni diverse e culture diverse si mettessero d’accordo su una sola regola, la cosiddetta  regola d’oro, “Non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te stesso”, che si trova sia nei Vangeli e sia nel Corano e nei dialoghi platonici. 

Mario Setta

Fattitaliani

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