Libri, "Ultima Madre" di Sonia Ambroset per capire e 'vivere' la morte con intensità. La recensione di Fattitaliani

Sonia Ambroset, "Ultima Madre", Ed. Europa, Roma, 2016. Recensione di Andrea Giostra.

Sonia Ambroset, col suo Romanzo, tratta un tema assai delicato, una questione umana che per la cultura occidentale del XX e del XXI secolo è diventata interdetta, indicibile, per certi versi ripugnante, o peggio ancora, superstiziosamente rinnegata: la morte, ovvero, l'approssimarsi repentino della morte a causa di una malattia terminale!
Coloro che per una malattia letale sanno che la loro clessidra ha cominciato velocemente a far scorrere la sabbia bianca dall'ampolla superiore verso quella inferiore dando loro la sola possibilità di guardare dolorosamente ed impotentemente quello scorrere repentino ed inesorabile del tempo che li condurrà ad un riposo eterno per chi ha fede in Dio … al nulla perpetuo per chi non crede nell'anima o in un'altra vita, seppur diversa, dopo la morte terrena.
Il romanzo, che sprizza piacevolmente di contenuti autobiografici e quindi neorealisti, è molto interessante perché sfata inesorabilmente, con raffinata eleganza narrativa, questo blocco psico-culturale e sociologico-mentale che noi occidentali ci portiamo appresso da troppo anni, da secoli probabilmente. Ma se abbiamo modo di vivere parte del nostro tempo accanto a queste persone, come Cristina, la psicologa protagonista del Romanzo, che per decenni assistette tantissimi malati terminali di una Clinica specializzata nell'accompagnare nell'aldilà queste fragili vite alle quali la medicina non aveva lasciato più alcuna speranza; se, come Cristina, avessimo modo di vivere questa particolare forma di “farsi-carico-psicologico”, di “prendersi-cura” di queste vite divenute gracili e definite dalla medicina ufficiale terminali, dando loro conforto, per esempio, col semplice ascolto attento ed empatico dei racconti della loro vita che hanno vissuto da giovani donne o da giovani uomini - come avviene nelle storie raccontate nel Romanzo di Cristina, o forse di Ambroset! - allora ci renderemo inesorabilmente consapevoli che la morte, per chi sa che vedrà la luce del sole ancora per pochi giorni, al massimo per qualche mese, non è più un momento da rinnegare o da misconoscere, ma da capire profondamente, e, paradossalmente, da vivere con intensità, da vivere con una dolcezza triste ma interessante, che allontana l'apatia e lo scoramento più tetro, perché è proprio nella fase terminale della nostra vita - che sia naturale o per una tragica malattia - che ci dobbiamo occupare della nostra morte, fugando la depressione che cattura ed imprigiona coloro che rinnegano inconsapevolmente la verità della nostra vita: siamo venuti al mondo il tempo di un solo battito di ciglia della storia dell'universo.
Probabilmente la consapevolezza quotidiana della morte ci rende più umani, più generosi, più altruisti, più vicini ai bisogni del nostro prossimo; la morte non la possiamo fuggire, possiamo ingenuamente e stupidamente ripudiarla finché non ci sorprenderà; oppure, come Cristina nel Romanzo, farcela amica: «Meglio cercare di cogliere anche la bellezza e l'armonia. Meglio incontrarla ogni giorno, piuttosto che trovarsela davanti di sorpresa come una sconosciuta» (pag.12).
In fondo siamo degli esseri umani programmati geneticamente per nascere; per vivere la nostra vita attraversando e affrontando con dolore ma anche con determinazione tutti gli ostacoli che si pongono davanti al nostro cammino; ovvero, godendo di quelle poche e rare gioie che la vita ci riserva lungo il nostro percorso vitale, per poi arrivare alla fine del nostro viaggio, anche se non si è malati terminali. E questa fine non è altro che la morte.
È anche vero, scrive Ambroset, ricordando l'inizio della carriera di psicologa di Cristina, che: «Sentivo che la morte è nelle cose e porta la pace ... quando ho iniziato a frequentare il mondo della meditazione, appresi che veniva teorizzato e praticato normalmente. I monaci, nei ritiri, ci insegnavano a meditare sulla morte e c'era un mantra che recitava "nella cessazione c'è la pace"» (pag. 12).
È chiaro che tutto ciò non ha nulla a che vedere col piangere coloro che ci lasciano per sempre - fisicamente ovvero relazionalmente - anche se si è uno psicologo, anche se si è un “operatore sociale”, come vengono chiamati coloro che si occupano professionalmente di chi ha bisogno di aiuto umano e sanitario: piangere chi ci lascia è un atto liberatorio e naturale al contempo che ci consente di essere vicini fino in fondo a colui che va via; ma al contempo è un atto catartico di un dolore che accompagnerà per sempre chi resta, ed è per questo che «quando ti si strappa l'anima le lacrime sono indispensabili!» (pag. 36).

Sonia Ambroset, alcuni link:

ANDREA GIOSTRA
Fattitaliani

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