La
prima cosa che mi son chiesto allo scorrere dei titoli di coda, è
che genere di film fosse quello che avevo appena finito di vedere.
Commedia, Thriller, Horror, Drammatico, Grottesco, Noir,
Sentimentale, Sociale, d’Autore … la risposta che mi sono dato è
stata semplice e magari ovvia: tutti e nessuno!
Forse Jordan
Peele,
che ha curato la sceneggiatura e la regia della sua opera prima, ha
inventato un nuovo genere cinematografico al quale bisognerebbe al
più presto dare un nome, considerato il successo di critica
internazionale prima, e di pubblico adesso. Mirabilmente prodotto da
Jason
Blum,
con la sua casa di produzione hollywoodiana Blumhouse
Productions,
insieme alla QC
Entertainment.
Un produttore quarantenne e lungimirante che ha avuto il coraggio
tipico degli statunitensi, di investire su un altro giovane e
talentuosissimo artista, il trentenne Jordan Peele.
“Get
out” (2016) è un film per il quale scrivere una recensione che possa intrigare
il lettore risulta difficilissimo, proprio perché bisogna evitare in
tutti i modi spiacevoli spoiler … che nell’anticipare la
narrazione, potrebbero al contempo distruggere la genialità e
l’intelligenza della sceneggiatura, supportata da un’eccellente
regia e da un cast di attori, tra i quali brilla indiscutibilmente il
protagonista Daniel
Kaluuya,
straordinariamente efficace nel saper trasmettere allo spettatore
quel pathos e quel tremolio emozionale che il film riesce a
sprigionare con gli imprevedibili e sorprendenti accadimenti
narrativi.
Ma
detto ciò, qualcosa possiamo scriverla senza compromettere la buona
visione al lettore.
Il
titolo originale del film, “Get
out”,
è brillante ed in assoluta sintonia con i contenuti e, forse, con la
morale del film … se una morale c’è stata nella mente di Jordan
Peele che l’ha ideato, concepito, scritto e realizzato. La
traduzione letterale del titolo ha diversi significati proprio perché
la scelta è stata quella di non inserirlo in una frase compiuta, e
potrebbe essere tradotto con: fuori, esci, vattene, scendi, togliti,
levati, guarisci, introduciti, etc …. e solo nella forma
intransitiva, scappa. Tutte queste accezioni probabilmente danno un
elemento ermeneutico in più allo spettatore che vuole andare oltre
le scene che si gusterà sul grande schermo. Ma non scriviamo altro
in proposito.
I
parallelismi che sono stati fatti da moltissimi critici
cinematografici con successi del passato, sono assolutamente
impropri, disarmanti e da mortificanti eruditi
(nel senso di coloro che ripetono a pappagallo la conoscenza
acquisita senza alcuna elaborazione intellettuale e culturale!). La
sceneggiatura di “Get
out”
non ha proprio nulla da spartire con i vari: “Guess
Who's Coming to Dinner”
(1967) di Stanley
Kramer;
“Rosemary's
Baby”
(1968) di Roman
Polanski;
“The
Wicker Man”
(1973) di Robin
Hardy;
“12
Years a Slave”
(2013) di Steve
McQueen;
“Loving”
(2016) di Jeff
Nichols;
“Hidden
Figures”
(2017) di Theodore
Melfi.
Qualcosa
sulla storia forse possiamo scriverla: una giovane coppia
multirazziale di universitari, decidono di passare un weekend nella
magnifica villa dei genitori di lei, immersa in un magnifico bosco
affollato di cerbiatti dell’America ricca e dopo Obama ancora
velatamente razzista.
ANDREA
GIOSTRA.