Libri, “Frankenstein Junior: memorie dal set e altre quisquilie”. Fattitaliani intervista Carlo Amatetti di SAGOMA EDITORE

Mel Brooks aveva solo sei anni quando il fratello Bernie lo portò a vedere "Frankenstein Junior" di James Whale, si spaventò tantissimo e la sera chiese alla mamma di chiudere le finestre perché aveva paura che Frankenstein potesse entrare e mangiarlo. Quarant’anni dopo si ritrova con l’amico Gene Wilder a scrivere la sceneggiatura di un film nata da un’idea di Gene Wilder. Era così grande l’ammirazione per il film che aveva visto da bambino che lo realizzò con quel fervore e quell’irriverente genialità che lui stesso e molti altri credono sia il suo film migliore. Il libro scorre una miniera di ricordi legati a quel film ed è intriso da aneddoti e contributi di altri che facevano parte del Cast artistico e tecnico. A parlarcene è Carlo Amatetti di SAGOMA EDITORE.

Il libro racconta il dietro le quinte di Frankenstein Junior. Come nasce l’idea? 
È nata dallo stesso Mel Brooks che è stato compulsato dal suo vecchio Produttore e alla fine dopo quarant’anni ha ceduto ed aiutato da una scrittrice, ha buttato giù le memorie di questo film. Oltretutto c’è anche un collage di interviste, contributi inediti ed editi in altri contesti come riviste, libri di memorie di altri attori quali lo stesso Gene Wilder e Teri Garr e di tutto il resto del Cast sia artistico che tecnico. 
Mel Brooks era legato a Gene Wilder da una grande amicizia, quanto è importante essere amici in questo lavoro? 
Tantissimo, in questo caso in particolare l’idea era nata da Gene Wilder che era stato sorpreso da Mel Brooks sul set di Mezzogiorno e mezzo di fuoco mentre giocherellava con un block notes e Mel Brooks aveva adocchiato in cima a questo foglio degli appunti su Frankenstein. Gli chiese cosa fossero e lui gli raccontò la storia come aveva pensato di realizzarla nel film e se fosse interessato a dirigerlo. Lui disse “Va bene! Hai dei soldi da parte?” “Sì ho cinquantasei dollari”, “Bene, li prendo come acconto”. 
Mel a dirigere ed un grande cast a tenere insieme il tutto. Sono gli ingredienti vincenti o ci vuole qualcos’altro? 
Beh ci vuole anche la fortuna, una cosa particolare che accadde in questo film è che mentre lo giravano sia Mel che Gene venivano da una sequela di fallimenti al botteghino al punto che le loro due carriere erano appese ad un filo. La fortuna volle che quell’anno Mel Brooks aveva lavorato contemporaneamente a due film che erano “Mezzogiorno e mezzo di fuoco e Frankenstein junior”. Mentre girava Frankenstein junior usciva al cinema l’altro che si è rivelato un clamoroso successo. Qui non è altro che fortuna perché solo per caso Gene Wilder è finito nel cast di Mezzogiorno e mezzo di fuoco e dall’altra parte se durante la lavorazione di Frankenstein Junior non fosse diventato un grande successo, la produzione non gli avrebbe dato in fase di montaggio quella libertà creativa che poi invece ha sancito la perfezione del film. Come dire il cast è buono, il prodotto è buono, la sceneggiatura è buona, tutto è buono però anche la fortuna ha giocato il suo.
Quando hai parlato di fortuna hai citato il caso, quanto conta il destino nella vita? 
Come dice Gene Wilder nel Film “Il destino è quel che è non c’è scampo più per me”. Il destino sicuramente gioca un ruolo decisivo tu però devi metterci del tuo per coglierlo e per approfittare dei corridoi positivi che crea, però spesso e volentieri devi intervenire per cambiare le carte in tavola in maniera decisa.
Come fa una commedia sfrenata ad essere anche dolce, triste e qualche volta anche paurosa? 
E’ stato il discorso che aveva fatto Mel Brooks a tutto il cast riunito per il primo giorno di riprese. Tutti i sentimenti che hai enunciato sono distillati al massimo livello, in tutti i momenti. Ad esempio, tenuto conto che era adatto anche ad un pubblico di bambini, ieri lo ha ricordato anche Giampiero Ingrassia che l’aveva visto da bambino accompagnato dal papà che era appassionato di horror, quando nella prima scena compare lo scheletro dell’avo Franken-stin e strappa via il testamento, i bambini si spaventano sul serio perché essendo all’inizio, non si sono ancora calati nella costruzione comica. La prima scena è un cadavere, costruito all’epoca in maniera ottimale. L’ho fatto vedere due giorni fa a mio figlio che ha sei anni, si è spaventato anche lui. C’è la paura, c’è la comicità ma ovviamente c’è anche il sentimento perché nella scena finale dove c’è Frankenstein il mostro che difende il proprio creatore quando è disteso inerte, è davvero molto commovente. E’ in funzione di questa scena che aveva chiesto al truccatore di rendere pauroso il Mostro ma con dei lineamenti sufficientemente nobili perché reggesse questa scena finale dove in realtà doveva apparire quasi bello perché doveva ergersi in difesa del proprio creatore con un discorso che commuove non solo i presenti alla scena ma anche gli spettatori. 
Una commedia per essere realista di quali ingredienti necessita?
In quel caso non era tanto il realismo della narrazione ma era quello dell’omaggio ai film di James Whale degli anni 30. Cioè a quel Frankenstein che lui voleva emulare dal punto di vista della confezione artistica. Per essere tutto più vero, hanno utilizzato scenografie e macchinari dell’epoca ma era riuscito a pescare tutto l’armamentario del laboratorio dallo stesso che l’aveva creato per il film di Whale e che ancora lo teneva nel box e scherzosamente nel libro dice “Probabilmente non aveva una macchina”. In realtà sfruttano tutta una serie di errori per ricreare in maniera indiretta quelle imperfezioni che non potevano che esserci con gli armamentari che c’erano negli anni 30. Ad esempio il Cameramen rideva a tal punto mentre si girava che spesso la telecamera oscillava. Ha tenuto alcune scene perché questa oscillazione era propria dei macchinari dell’epoca che non correvano sulle ruote gommate e si muovevano tenendo la scena.  Decise di tenerle perché recuperavano il realismo dell’epoca. 
Prima le risate poi la qualità, quanto è difficile far ridere al cinema? 
Forse è la cosa più difficile da ottenere. Abbiamo pubblicato qualche mese fa un interessantissimo saggio di Gianni Canova su Checco Zalone che vene costantemente massacrato dai critici cinematografici. L’autore ha fatto un’opera di critica e di esame di suoi film per far capire quanto lavoro certosino ci sia dietro ad ogni scena in cui appunto il ritmo, la velocità è fondamentale per la risata. E’ un combinato disposto di ritmo che determina la risata. E’ veramente un’alchimia difficile da realizzare. E’ per questo che Mel Brooks che ne era campione prima puntava a quello poi se c’era tutto il resto andava bene così ma se non c’era era l’obiettivo da perseguire. Mel Brooks ripeteva le scene fino alla nausea perché la comicità non può che essere figlia della perfezione perché basta un centesimo di secondo in meno e l’effetto comico sparisce. 
Il Frankenstein Junior visto da bambino era il suo film preferito. Perché? 
Perché ha raggiunto il livello più alto di confezione artistica. Mentre gli altri erano divertenti, con il suo Frankenstein Junior era riuscito ad esprimersi al meglio come Regista. La cifra artistica di quel film è perfetta, è di altissimo livello. Il suo intento forse era quello di omaggiare gli anni trenta. Lo ha soddisfatto sotto tutti i punti di vista. 
La gratificazione è al massimo quando si scopre che un film sopravvive anche alle generazioni future. Succede spesso? 
Assolutamente sì. La dimostrazione è che quando siamo in Fiera per Frankenstein Junior arrivano bambini di quattro o cinque anni perché quando il genitore vede i primi barlumi di consapevolezza nei propri figli, uno dei primi film che gli fanno vedere è ancora Frankenstein Junior e loro si spaventano, si commuovono, si divertono, in una confezione che non è volgare. E’ veramente un piccolo gioiello adatto a tutte le età. 
Elisabetta Ruffolo
Fattitaliani

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