WASHINGTON
- È una tiepida giornata d’autunno. Un cielo azzurro, terso,
contorna belle architetture. Le chiome degli alberi vanno assumendo
colori di tavolozza. Dall’annuale visita d’ottobre a New York
ritaglio tre giorni per la capitale degli States.
Un incontro con gli
Abruzzesi e Molisani dell’Heritage Society di Washington ed altri
impegni presso il Gala Weekend della NIAF, la prestigiosa Fondazione
degli italoamericani, mi hanno portato qui. E tuttavia non posso
mancare una visita alla Georgetown University, ateneo privato tra i
piu’ prestigiosi d’America. E’ interessante la storia di questa
università, ma non sono qui per questo. Sono a Georgetown per
incontrare un’abruzzese di Vaglia, Laura Benedetti, che qui insegna
Letteratura italiana e per diversi anni ha diretto il Dipartimento di
Italiano. La prof. Benedetti e’ una figura di rilievo nella
comunita’ italiana residente nell’area (Distretto Columbia,
Maryland, Virginia). Qui di seguito l’intervista che volentieri mi
ha rilasciato.
Com’è
nata la tua prima “migrazione” in Canada?
Sono
arrivata in Canada dall’Aquila, seguendo i consigli amorevolmente
perentori di Mietta D’Amico, la mia professoressa di liceo, il che
tra l’altro dimostra come un’insegnante possa avere un’influenza
decisiva sulla vita di una persona. A Mietta D’Amico, anzi “alla
D’Amico”, come la chiamavamo tutti, devo anche il mio primo
incontro con Sandro Cordeschi, che mi aveva preceduto nel soggiorno
canadese e che avrebbe scritto pagine importanti sui suoi viaggi
nell’Ovest americano. In Canada, e precisamente alla University of
Alberta di Edmonton, ho conseguito un Master e ho incontrato un
professore, Enrico Musacchio, che è diventato un punto di
riferimento umano e intellettuale. La mia esperienza canadese è
durata meno di un anno, ma è stata importantissima, anche perché
era la prima volta che lasciavo l’Europa, e anche in Europa non è
che avessi viaggiato tanto...
Dopo
il Canada, gli Stati Uniti…
Sì,
l’anno dopo ero a Baltimora per un programma di dottorato alla
Johns Hopkins University. Ho avuto la fortuna di arrivare negli Stati
Uniti con un atteggiamento molto aperto. Non avevo mai coltivato il
mito dell’America ma al tempo stesso non nutrivo
quell’anti-americanismo a oltranza che era molto comune in
quell’epoca tra i giovani italiani e che per certi versi permane
ancora oggi. Questo mi ha permesso di affrontare con filosofia luci e
ombre di un paese certamente pieno di contraddizioni ma che
ultimamente ci ha regalato dei momenti esaltanti con l’elezione di
Barack Obama e tra poco, speriamo, quella di Hillary Clinton.
Una
volta completati gli studi, hai cominciato ad insegnare in università
prestigiose, prima a Harvard e ora a Georgetown, dove hai anche
diretto per sei anni il Dipartimento di Italiano.
Al
di là del prestigio, mi considero davvero fortunata per aver avuto
la possibilità di dialogare con alcuni grandissimi intellettuali
come Franco Fido, mio collega a Harvard per otto anni, un uomo
dall’erudizione sconfinata, pari solo alla sua generosità. Credo
però di aver raggiunto la mia piena maturità a Georgetown, anche in
virtù dei ruoli amministrativi che mi sono stati affidati, in
particolare in quanto direttrice di uno dei pochi dipartimenti negli
Stati Uniti esclusivamente dedicati all’italianistica. Per una
fortunata coincidenza, il mio mandato come direttrice è coinciso con
la presenza a Washington di un illuminato ed efficientissimo
Direttore dell’Istituto Culturale Italiano, Alberto Manai. Dalla
nostra collaborazione sono scaturiti importanti convegni in occasione
degli anniversari dell’Unità d’Italia, della stesura del
Principe
di
Machiavelli e della nascita di Giovanni Boccaccio, nonché la prima
conferenza sull’insegnamento dell’italiano negli Stati Uniti
(grazie alle mie colleghe Louise Hipwell e Donatella Melucci). Tra
gli altri, numerosissimi eventi organizzati in collaborazione con
l’Istituto Culturale Italiano e l’Ambasciata Italiana di
Washington, mi piace ricordare una serata intorno al dodicesimo canto
della Gerusalemme
liberata tenutasi
alla National Gallery of Arts di Washington: dopo una mia
presentazione degli aspetti letterari del canto, lo storico dell’arte
Peter Lukehart ha illustrato le opere di incisori e pittori ispirati
dai versi tassiani e, per finire, la National Gallery of Art
Vocal Ensemble diretto da Rosa Lamoreaux e la National Gallery of Art
Chamber Players ha eseguito una memorabile versione dal vivo del
Combattimento
di Tancredi e Clorinda
di Claudio Monteverdi.
In
che modo il fatto di vivere e lavorare negli Stati Uniti ha
influenzato la tua visione della cultura italiana?
Sono
arrivata in Nord America negli anni in cui si affermavano i Women’s
Studies e i Gender Studies, che mi hanno fornito i parametri
necessari per interpretare i testi della tradizione italiana in una
luce nuova e per riscoprire figure dimenticate. Il mio primo libro,
La
sconfitta di Diana. Un percorso per la «Gerusalemme liberata»,
nasce proprio dall’entusiasmo per queste nuove prospettive.
Drammatico, coinvolgente e modernissimo, il poema di Tasso continua a
riservarmi sorprese ad ogni rilettura. A La
sconfitta di Diana
hanno fatto seguito tanti altri lavori, in italiano e in inglese,
come The
Tigress in the Snow. Motherhood and Literature in Twentieth-Century
Italy,
che ripercorre la storia della maternità nell’Italia del ventesimo
secolo attraverso il filtro della letteratura, e l’edizione e
traduzione inglese di Esortazioni
alle donne,
un rarissimo testo di una scrittrice veneziana vissuta tra il ‘500
e il ‘600, Lucrezia Marinella, una figura complessa e affascinante.
Alla
produzione saggistica recentemente si è aggiunta una felice
incursione nella narrativa con Il
paese di carta.
Ho
coltivato la narrativa, in maniera per la verità un po’
discontinua, fin da giovanissima. Un
paese di carta
nasce da tante sollecitazioni legate anche alla mia vita di
emigrante, a cominciare dal titolo, che si riferisce al paese
immaginario che una persona lontana si costruisce con sogni, memorie,
espressioni, racconti, letteratura. Non si tratta però di un
romanzo-saggio: le riflessioni scaturiscono o dovrebbero scaturire
dalle avventure dei personaggi, in particolare da quelle di tre
generazioni di donne legatissime malgrado le differenze e i
malintesi.
Tra
queste tre protagoniste, è la figura di Alice che impersona al
meglio la tenacia, il coraggio e l’emancipazione della donna.
Dai
molti, ricchissimi incontri che ho avuto con i lettori durante lo
scorso anno, da Napoli a Torino, da Washington a Baton Rouge, emerge
chiaramente che Alice, la matriarca, la più anziana delle tre donne
del romanzo, è quella che riceve maggior interesse e consensi. È
senz’altro il personaggio più libero e anticonformista del
romanzo. Questa storia in fondo nasce da una scena che la vede
assolutamente protagonista e che ho avuto in mente per tanto tempo:
una donna che sta per morire fa una lunga passeggiata lungo il
Potomac, il maestoso fiume che attraversa Washington, accompagnata
dai fantasmi delle persone che le sono state care durante la vita. Al
tempo stesso, sento molta affinità anche per le altre due figure
femminili, cioè Jane e Sara, rispettivamente la figlia e la nipote
di Alice. Sono personaggi più coinvolti nel presente e quindi più
contraddittori e confusi, ma intelligenti e generosi, in cerca di
qualcosa da coltivare in una quotidianità che delude sempre le loro
aspettative. In particolare Sara, la più giovane, si offre di
esaudire le ultime volontà della nonna trasportandone le ceneri a
L’Aquila, la città che Alice aveva lasciato più di mezzo secolo
prima.
Si
parte dunque dagli Stati Uniti per arrivare a L’Aquila…
Sì,
in un certo senso è il percorso contrario a quello che ho fatto io!
Sara, che aveva vissuto anche lei, tramite la nonna, in “un paese
di carta”, si trova scaraventata nell’Aquila del post-terremoto,
una città per certi aspetti incomprensibile, ferita e vulnerabile,
minacciata da speculazioni di ogni tipo ma difesa dall’impegno
civico di una parte della popolazione. Il romanzo diventa dunque
anche il bildungsroman
di Sara, che attraverso l’incontro e per certi versi anche lo
scontro con un mondo che le si rivela molto diverso da quello che
aveva immaginato definisce la propria identità, riesce ad accettare
meglio se stessa e addirittura a vedere in una luce più positiva sua
madre, con cui aveva avuto rapporti molto conflittuali. Viaggiare, ne
sono convinta, non serve solamente a conoscere altre culture, per
importante che ciò sia, ma soprattutto a conoscere se stessi.
Il
romanzo è anche un atto d’amore verso L’Aquila. Storie e vicende
drammatiche, dalla Seconda Guerra Mondiale al terremoto, si
incrociano, e tutto alla fine si tiene in un finale sorprendente…
Il
romanzo è drammatico, certo, eppure ottimista, perché alla fine le
forze della comunicazione prevalgono su quelle della disgregazione,
la memoria storica (il passato remoto caro ad Alice, che obbligava la
figlia a ripassarne le coniugazioni) viene preservata e trasmessa.
Sara riesce ad esaudire il voto della nonna solo dopo aver sciolto il
mistero che avvolgeva le vere ragioni della sua partenza dall’Italia,
solo dopo essersi fatta carico della sua storia famigliare che le si
rivela indissolubilmente legata ad un capitolo tragico e misterioso
della storia dell’Aquila, l’uccisione di nove giovani partigiani,
i Nove Martiri Aquilani. C’è un passo apparentemente parentetico
nel romanzo in cui Sara avverte improvvisamente che tutto si collega.
L’ultima parte del romanzo, che cerca di comporre i vari fili della
trama in una composizione coerente, è scandita dalle fasi lunari,
con capitoli che anche nei titoli (“Luna nuova”, “Primo
quarto”, “Luna crescente” ecc.) seguono le tappe di Sara tanto
nella conoscenza della storia della nonna quanto in quella di se
stessa, in un processo che raggiunge il suo culmine con la luna
piena. L’ultima scena del romanzo, alla Fontana delle 99 Cannelle,
costituisce dunque non solo un epilogo ma anche un nuovo inizio,
segnato dalla presenza dell’acqua e dalla sua promessa di
rinnovamento - che spero sia di buon auspicio per una città che
dall’acqua trae il suo nome!
Goffredo
Palmerini
(da
rivista trimestrale D’Abruzzo, n.29/Autunno 2016 –
www.dabruzzo.it)