di Goffredo Palmerini - L’AQUILA
- Una Perdonanza
Celestiniana
diversa, sofferente, nella condivisione del dolore con le popolazioni
di Amatrice,
Accumoli,
Arquata
e Pescara
del Tronto,
colpite duramente dal terremoto che ha squassato quel lembo d’Italia
dove quattro regioni s’incontrano: Lazio, Marche, Abruzzo e Umbria.
Annullati in segno di lutto dalla Municipalità aquilana tutti gli
eventi che per una settimana fanno corona alla Perdonanza. Ridotto ai
minimi termini, simbolico, il Corteo che accompagna la Bolla
pontificia che indice il più antico giubileo della storia, voluto
nel 1294 da papa
Celestino V
all’atto della sua incoronazione a L’Aquila
e da 722 anni ogni anno celebrato, come la Bolla stessa dispone, dai
Vespri del 28 agosto a quelli del 29, quando ciascun credente,
sinceramente pentito e confessato, entrando nella Basilica
di Santa Maria di Collemaggio,
può ottenere il perdono da ogni colpa e pena. L’indulgenza
plenaria gratuita e universale che quel Santo, pontefice per soli
cinque mesi prima delle sue “rivoluzionarie” dimissioni, rese
disponibile per l’intera umanità, per chiunque si fosse
riconciliato con Dio. Da sette secoli quel messaggio di
Riconciliazione e di Pace ogni anno s’irradia dalla città
capoluogo d’Abruzzo, tanto cara a Celestino, con la Perdonanza.
Quest’anno si sono riaperte le ferite del 2009, mai rimarginate
agli Aquilani, nella condivisione delle sofferenze con le popolazioni
provate dal sisma del 24 agosto scorso. Lo ha detto nella sua intensa
e toccante omelia il Cardinale Edoardo
Menichelli,
aprendo tuttavia il cuore alla Speranza e alla Misericordia, prima di
avviarsi a battere i tre colpi con il ramo d’ulivo del Getsemani
che hanno aperto la Porta Santa della Basilica di Collemaggio, resa
eccezionalmente agibile in una navata al passaggio dei fedeli,
nonostante sia attualmente assoggettata a complessi lavori di
restauro dai danni del terremoto grazie ad un finanziamento dell’ENI.
Alle
celebrazioni della Perdonanza,
su invito dell’Arcivescovo dell’Aquila, Mons.
Giuseppe Petrocchi,
ha partecipato Mons.
Corrado Lorefice,
Arcivescovo di Palermo. Giunto all’Aquila il 27 agosto, nel
pomeriggio avrebbe dovuto tenere presso l’Auditorium del Parco la
riflessione “La
Gioia della Misericordia”,
organizzata dall’Azione Cattolica diocesana ed inserita nel corposo
programma civile della Perdonanza, poi annullato in segno di lutto.
Anche Mons.
Lorefice
- che preferisce d’essere chiamato don
Corrado
- ha vissuto il dramma del terremoto, condividendo con gli Aquilani,
e in particolare con la comunità di Paganica,
i più duri momenti del post sisma, portando la sua solidarietà e la
vicinanza della sua parrocchia, egli allora parroco del Duomo di San
Pietro a Modica.
Più volte è venuto a trovarci a Paganica,
la più popolosa frazione dell’Aquila, con il direttore della
Caritas diocesana, Maurilio
Assenza,
e con gruppi di suoi parrocchiani. Negli anni questa profonda
sensibilità ed amicizia nella fede è diventata un vero e proprio
gemellaggio tra la parrocchia di don Corrado e la parrocchia di
Paganica. Una fraternità poi allargata alle due intere comunità di
Modica
e
Paganica,
alimentata da visite reciproche nei momenti più significativi della
vita religiosa e civile delle due città. E proprio quando a fine
ottobre dell’anno scorso divenne pubblica la notizia che papa
Francesco
inaspettatamente aveva nominato don
Corrado Lorefice
arcivescovo di Palermo
- una delle diocesi più grandi d’Italia - a Modica
era
presente una delegazione di Paganica,
guidata dal parroco don
Dionisio Rodriguez,
che visse in diretta quella straordinaria emozione comunitaria. E
ancora, quando il 5 dicembre 2015 nella Cattedrale di Palermo don
Corrado ricevette l’ordinazione episcopale con l’imposizione
delle mani dal Cardinale
Paolo Romeo,
presenti tutti i vescovi della Sicilia, anche una delegazione di
Paganica
era lì presente al rito che commosse tutta Palermo.
Da
quel giorno l’Arcivescovo di Palermo, don
Corrado,
aveva promesso che sarebbe venuto a L’Aquila
e a Paganica
a
salutarci. Ne è stata occasione la Perdonanza,
raccogliendo l’invito di Mons. Petrocchi. E così già nella sera
di sabato 27 agosto, presso il Centro Parrocchiale “San Giustino”,
don
Corrado ha
incontrato la comunità paganichese, Egli accompagnato da Mons.
Paolo De Nicolò,
già Prefetto della Casa Pontificia e padre spirituale negli anni di
sua formazione teologica a Roma.
E’ stato un incontro di grande amicizia, come sempre. Don Corrado,
con singolare spontaneità, ci ha fatto vivere con le sue confidenze
l’emozione della sua nomina e ordinazione, l’incontro con Papa
Francesco
e le parole del Santo Padre d’esortazione al ministero episcopale,
nel il segno del “Pastore
che ha l’odore delle sue pecore”,
prossimo ai poveri e agli ultimi. L’incontro con la comunità di
Paganica,
salutato da don Dionisio e da don Federico, è stato accompagnato da
un’agape fraterna, nella bellezza dell’amicizia. L’indomani
mattina, domenica 28, don
Corrado
ha presieduto la Santa Messa nella Chiesetta di San Bartolomeo del
Monastero di Santa Chiara a Paganica,
concelebranti Mons.
Paolo De Nicolò,
don
Vasco Paradisi,
don
Federico Palmerini.
Con
le Clarisse don
Corrado
ha una relazione spirituale intensa, sia nella corrispondenza che
negli incontri diretti durante le sue visite a Paganica. La
celebrazione eucaristica, nella bella chiesa adorna da lacerti
d’antichi affreschi e con moderne opere di vibrante significato,
dove al momento è custodita l’urna con le spoglie incorrotte della
fondatrice del monastero, la Beata
Antonia da Firenze,
fin quando l’adiacente Chiesa del Carmine non vedrà la prossima
conclusione dei lavori di ricostruzione dal sisma - sotto le cui
macerie perì la badessa Madre
Gemma Antonucci
-, è stato solo il prologo dell’affetto che la comunità di
Paganica
nutre per il Presule siciliano. Infatti, l’Eucarestia presieduta
nella Chiesa degli Angeli Custodi, con don Dionisio e don Federico,
ha recato segni di evidente commozione e di molti occhi lucidi,
durante l’omelia di don
Corrado
e nei saluti che hanno concluso la celebrazione. Occhi lucidi di
commozione e di affetto condiviso, specie quando a nome della
comunità paganichese don Dionisio ha consegnato in dono a Mons.
Lorefice
il bastone Pastorale, con legno di noce locale, realizzato
artisticamente dall’artigiano Achille
Buoncompagno.
Al
tramonto, davanti la Basilica di Collemaggio, dopo l’arrivo del
Corteo e la lettura della Bolla, la concelebrazione eucaristica
presieduta dal Cardinale
Menichelli
- legato pontificio ed Arcivescovo di Ancona Osimo - con Mons.
Giuseppe Petrocchi,
Mons.
Giuseppe Molinari
(Arcivescovo emerito dell’Aquila), Mons.
Corrado Lorefice,
Mons.
Orlando Antonini
(Nunzio apostolico), Mons.
Paolo De Nicolò,
Mons.
Angelo Spina
(Vescovo di Sulmona- Valva) e Mons.
Pietro Santoro
(Vescovo dei Marsi), quindi il rito di apertura della Porta Santa che
ha dato avvio alla Perdonanza. Poi la Veglia dei giovani, protrattasi
nella notte, e dal primo mattino del 29 agosto le celebrazioni
durante l’intera giornata, con le Messe dedicate. Mons. Lorefice ha
celebrato e presieduto, alle 10, la Perdonanza dei Militari e delle
Forze dell’Ordine. Commossa e numerosa la folla di fedeli a lucrare
l’indulgenza di S. Pietro Celestino, posto accanto all’altare
nella sua urna di cristallo. In mattinata, intanto, era giunto
all’Aquila da Roma,
dove si era recato per l’Anno della Misericordia, il gruppo di
fedeli, una cinquantina, proveniente dalla diocesi di Palermo.
Per loro un’esperienza straordinaria vivere e conoscere la
Perdonanza, insieme al loro Arcivescovo. Sotto la provetta guida di
Angelo
De Nicola,
giornalista e scrittore, il gruppo ha iniziato la visita alla città
partendo dal magnifico Monastero
di San Basilio,
dove vivono in clausura le ultime Celestine, mentre due altre loro
comunità conducono missioni in Africa,
a Bangui, e nelle Filippine.
Quindi la visita guidata ai monumenti già restaurati della città,
con le meraviglie architettoniche dell’Aquila, quantunque molte
siano le ferite del sisma ancora da guarire. Dopo la Messa vespertina
è seguito il rito di chiusura della Porta Santa di Collemaggio, che
verrà aperta di nuovo il 28 agosto 2017 per la 723^ Perdonanza,
mentre la Bolla di Celestino, tornata nelle mani del Sindaco
dell’Aquila, rimarrà custodita nei forzieri del Comune.
La
comunità aquilana ha fortemente apprezzato la testimonianza
d’amicizia e fratellanza espressa da Mons.
Lorefice
a nome dell’intera diocesi di Palermo, presente con il gruppo di
rappresentanza delle sue 179 parrocchie. Una bella testimonianza,
viva calorosa commossa e intensa. Siamo
davvero assai grati a Mons. Lorefice per la sua premurosa attenzione
verso gli Aquilani, mentre ancor più è autentica e bella è la sua
partecipazione alla Perdonanza con un gruppo di pellegrini della sua
diocesi. Un gesto di condivisione nella fede che si spera venga
emulato anche da altre diocesi. La
decisione della Municipalità d’annullare tutto il programma della
Perdonanza non ha, come si diceva, consentito di svolgere l’incontro
che Mons. Corrado Lorefice avrebbe dovuto tenere nel pomeriggio di
sabato. Tema della riflessione per la Perdonanza: “La
Gioia della Misericordia
- Per
conoscere e vivere nella letizia della condivisione”. Don
Corrado ci ha tuttavia lasciato il testo della sua riflessione, che
volentieri si condivide per chi voglia riportarlo integralmente o in
parti.
“Quale
miglior modo per parlare della gioia della misericordia, che dare
voce a chi l’ha provata, a chi ne ha fatto esperienza, a chi è
stato rigenerato alla vita in virtù dell’amore misericordioso di
Dio testimoniatoci dal Crocifisso risorto. Zaccheo per esempio!
Ascoltiamo lui. Per tanti di noi oggi è un discreto amabile
condiscepolo che accompagna l’arduo ma entusiasmante cammino dietro
al Maestro. E mi piace leggere l’episodio che porterà Zaccheo a
sperimentare la gioia prorompente e trasformante della misericordia
di Dio alla luce del Salmo 85. Perché è veritiera la parola del
Salmo - che troverà compimento nella carne del Nazareno, colui che
porta su di sé il peccato del mondo (cfr. Gv 1, 29): “Dio ama la
sua terra, e fa ritornare i deportati di Giacobbe, perché Dio porta
la colpa del suo popolo, cancella tutti i suoi peccati, ritira tutto
il suo furore e recede dall’ardore della sua ira. Mostra il suo
amore, dona la salvezza, perché il suo popolo abbia gioia in lui”
(cfr. Sal 85, 2-7). A Gerico, dopo aver conosciuto la tristezza
dell’idolatria del denaro, grazie a Gesù, Zaccheo ritroverà la
vera grandezza e ricchezza di un ebreo: essere e vivere da «figlio
di Abramo», da erede delle promesse. Dopo aver conosciuto l’esilio
dell’egoismo e la schiavitù della brama e dell’accumulo dei beni
mondani, Gerico, nella valle dove scorre latte e miele, sarà per lui
patria dell’incontenibile magnanimità di Dio e terra della gioia
della condivisione.
Quando
sopraggiunge Gesù nella vita e nella città degli uomini
Attorno
a Gesù giunto a Gerico si stringeva la folla - quasi un rimando agli
esodati d’Egitto allorché arrivarono nella meravigliosa pianura di
Gerico, alla sospirata e dolce terra promessa da Dio ad Israele, o
agli esuli del secondo esodo avvenuto per mano dei babilonesi. Gesù
sfama la folla con un pane essenziale di parola, guarisce dando di
nuovo la vista ai ciechi (cfr. Lc 18,42). «Allora si apriranno gli
occhi dei ciechi» aveva profetizzato Is 35, 5, in un contesto
storico in cui ormai i re di Israele inclinavano a fare ciò che è
male agli occhi del Signore e imponevano il loro giogo ai poveri e
agli esclusi del paese. Gesù rende presente un Dio
Goel,
redentore,
liberatore, dalla parte dei poveri ma che va incontro anche ai
peccatori. Sconvolgendo il comune sentire religioso, a tal punto che
il Battista, avendo sentito parlare delle opere di Gesù, dal carcere
manderà i suoi discepoli a domandargli: «“Sei tu colui che deve
venire o dobbiamo attenderne un altro?”» (Mt 11, 2-3), tradendo un
momento di evidente crisi dopo averne proclamato la messianicità
(cfr. Gv 1, 29-34). Ora, dentro le mura, essendo arrivato Gesù, la
calca è impenetrabile. Ed è proprio qui che emerge un personaggio
di nome Zaccheo: “il puro, il giusto”; un nome che, riferito a
lui, sembra essere un ossimoro, essendo un ricco e potente
pubblicano, esattore delle tasse, un corrotto asservito al potere dei
romani e alla brama del denaro, dissanguatore dei poveri. Gesù nel
capitolo precedente aveva affermato: «Quant’è difficile, per
coloro che possiedono ricchezze entrare nel Regno di Dio. È più
facile per un cammello passare per la cruna di un ago che per un
ricco entrare nel Regno di Dio!» (Lc 18, 24-25). Ma da lì a poco
Gesù riscatterà Zaccheo da questa triste sorte e il capo dei
pubblicani conoscerà la gioia del Regno.
L’esperienza
della misericordia riconsegna Zaccheo all’identità filiale, lo
libera dalla schiavitù della brama e dell’idolatria dell’io e
del potere, lo riscatta dalla falsa convinzione di poter 3
vincere
accumulando denaro la sua piccola statura umana, la fragilità
antropologica della morte. Gesù non incontra Zaccheo a partire da
una categoria etica: peccatore! Lo incontra, come persona, senza
nessuna precomprensione. In Gesù Dio incontra gli uomini, celebra un
incontro, lo vive in profondità. Non vede prima il peccato. Non va a
caccia del peccato. Ma vuole l’incontro, volto di fronte a volto.
Incontra la persona. Non rinchiude l’altro in una categoria. La
persona non può essere definita dal peccato. Con la sua pratica di
umanità Gesù si prende cura dell’altro, entra in relazione con le
donne e gli uomini che incrocia con il suo sguardo penetrante. Una
vera cura è globale, è l’istaurarsi di un rapporto etico e umano.
E così rende presente la misericordia del Padre.
La
povertà antropologica, è costantemente sotto i nostri occhi, vi
conviviamo. Della fragilità umana la manifestazione massima è la
morte. Siamo tutti Zaccheo. Portiamo nel nostro patrimonio genetico
il dramma di Zaccheo: piccoli, fragili, ingiusti, mortali. Ma inevasa
rimane una intima domanda di vera grandezza e di vera gloria, cioè
di pienezza di vita, di santità. Nasciamo piccoli e nella nudità,
viviamo tutti nel peccato e nella precarietà - cosa è certo nella
nostra vita?! - moriamo tutti nella solitudine. La morte ci avvilisce
e rende la nostra condizione umana alienata. La morte ci fa paura e
ci porta all’alienazione. Ma Gesù ci ha liberati dalla paura della
morte assumendo la morte. Eb 2, 14-15: «anch’egli ne è divenuto
partecipe, per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che
della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli
che per timore della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la
vita». Paurosi della morte, avvinti da un narcisismo sfrenato,
accumuliamo ricchezze per preservarci e per assicurarci il futuro.
L’accumulo è una strategia contro la morte. La ricerca della
vertigine (che oggi prende forma nell’uso smodato di alcol e di
stupefacenti e nella nevrosi del sesso), farsi una posizione,
acquistare potere, è uno sfuggire alla morte. Non si comprende che
la povertà antropologica va accettata. «Come l’erba sono i giorni
dell’uomo, come il fiore del campo, così egli fiorisce» (Sal 102,
15) si legge nella letteratura biblica sapienziale. Zaccheo è un
ricco e un potente, ma «piccolo di statura»!
La
misericordia, l’incontro con Chi dà la vita mentre noi siamo
ancora peccatori (cfr. Rm 5, 8), ci riconsegna alla vera gioia,
quella che prova l’uomo autenticamente libero, affrancato dalla
schiavitù dell’io bramoso e idolatrico; la gioia della
misericordia non è una mera, momentanea esperienza emotiva
religiosa, ma fondamento della vera felicità perché essa ci libera
dalla falsità di vita che ci costruiamo tutti come è accaduto a
Zaccheo. Egli ha rinnegato la sua identità di figlio di Abramo, di
erede delle promesse, pensando di innalzarsi con le sue forze ad una
statura antropologica di potenza e di forza, di immortalità. Eppure
è questa sua fragilità, la sua identità creaturale, che lo ha reso
agile a salire su un grande albero di sicomoro al fine di emergere
dalla folla che gli impediva di vedere Gesù, rivelandosi - la
piccolezza - condizione preziosa, non da sfuggire bensì da
valorizzare.
Un
incrocio di sguardi
C’è
comunque una sorta di istinto arguto in Zaccheo che lo porta a
“correre avanti”, almeno per vedere «quale fosse Gesù». Forse
anche in Zaccheo si è verificato quello che affermava Henri
Nouwen:
«Nel profondo del cuore noi già sappiamo che il successo, il
prestigio, la fama, il potere e il denaro non ci danno la gioia e la
pace profonda a cui aspiriamo. In certo modo, proviamo forse persino
una certa invidia per quelli che hanno respinto tutte le false
ambizioni e hanno trovato una realizzazione più profonda nel loro
rapporto con Dio. Sì, possiamo davvero assaporare il gusto di 4
quella
misteriosa gioia nel sorriso di quelli che non hanno niente da
perdere» (L’abnegazione
di Cristo,
Queriniana, Brescia 2008, 22).
Ma
il ricco e potente pubblicano non sa quello che lo aspetta. «Gesù
alzò lo sguardo» annota Luca. Il suo sguardo si illumina, manifesta
compassione, sente viscere di misericordia, rifulge nel suo volto il
volto del Padre che accoglie pieno di esultanza il figlio ritrovato,
desideroso di liberare la sua profonda gioia preparando e invitando
tutti a un banchetto festoso di grasse vivande e di vini succulenti.
Il salmista si domanda: «“Chi ci farà vedere il bene?”.
Risplenda su di noi, Signore, la luce del tuo volto» (Sal 4, 7).
Quella luce del volto di Gesù che emana calore e gioia riconsegna
alla gioia esistenziale e teologale Zaccheo immerso nell’arida
solitudine della sua alienante e menzognera ricchezza.
Non
una mera visione per acquisire un’informazione diretta ma una
sincronia di sguardi che celebra l’incontro. Un incontro cha cambia
la vita. «Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in
abbondanza» (Gv 10,10). Quella corsa in avanti era dovuta al suo
cuore umano che neanche la fredda e illusoria ragione calcolatrice
era riuscito a congelare: un cuore capace di cogliere il discreto
caparbio invito di Dio, come sembrano affermare le parole dell’orante
del Sal 27: «Il mio cuore mi ridice il tuo invito: “cercate il mio
volto!”, il tuo volto, Signore, io cerco, non nascondermi il tuo
volto». Ecco perché Gesù si espone direttamente e consegna il suo
volto a Zaccheo, tutta la sua persona, come ci direbbe Emmanuel
Lèvinas.
«Alzò lo sguardo verso di lui». E accoglie il volto di Zaccheo. Il
volto è domanda che chiede assunzione di responsabilità. Il volto
di Zaccheo suscita la responsabilità messianica di Gesù. Il volto
di Gesù suscita la responsabilità filiale/fraterna di Zaccheo. Lui
è venuto perché Zaccheo sia un figlio di Abramo non un seguace di
mammona, un uomo libero e non uno ‘schiavo carnefice’! Un figlio
e un fratello. Un uomo chiamato a praticare la giustizia, non ad
essere un oppressore. Chiamato alla condivisione e non all’isolamento
della brama predatoria. Sopraggiunge Gesù con il suo “E-vangelo”
e la potenza mortifera dell’ego
che
tiranneggia e ridicolizza la vita del pubblicano Zaccheo viene
neutralizzata.
«Non
ritornerai forse a darci vita, non gioirà più il tuo popolo in te?»
Zaccheo
scende in fretta dall’albero. Ricolmo di gioia ospita Gesù che
desidera “rimanere” (méno),
“restare” a casa sua. In lui si ripete il tratto inedito di Dio
misericordioso che raggiunge l’altro nella sua estrema distanza. E
per questo di un ricco peccatore, di colui che non avrebbe mai potuto
passare dalla cruna di un ago, Gesù ne fa un discepolo del Regno, un
banditore della gioia della misericordia del Dio che prova viscere di
compassione per tutti i suoi figli, e specialmente per i poveri e i
peccatori. Il Regno di Dio nel suo sopraggiungere nella storia delle
donne e degli uomini è giustizia e pace e gioia nello Spirito Santo
(cfr. Rm 4, 17). Il corrotto e il Maestro insieme. Sentiamo ancora il
riverbero della mormorazione scaturita dal cuore indurito dei
religiosi moralizzatori che sarà però sovrastato dall’espressione
della meraviglia per la decisione espressa pubblicamente da Zaccheo
di rimediare alla sua avidità e alla sua corruzione che ha seminato
sofferenza e oppressione.
«Il
Signore annuncia la pace al suo popolo, ai suoi adoratori, perché
non ritornino alla loro follia»
Restituire
quattro volte tanto e dare la metà dei suoi beni ai poveri è una
scelta notevole, ma indica che comunque Zaccheo rimane ricco.
Nondimeno egli «fa molto di più che pagare la pena di un pubblicano
che fa un uso spregiudicato del denaro: egli è un uomo che si
converte. Esce, cioè, dalla
mens,
che
hanno tutti coloro che sono dentro un sistema corrotto, dove ciò che
conta è soltanto avere di più, al prezzo del sacrificio delle
persone e della loro vita. Zaccheo si è accorto che la vita è fatta
di fraternità, di famiglia, di ricchezza condivisa»
[I
Vangeli tradotti e commentati da quattro bibliste
(R.
Virgili,
Luca),
Ancora,
Milano 2015, 1149].
La
salvezza realmente è entrata nella sua casa. Perché ormai conosce
la gioia della solidarietà. La gioia del perdono e della
misericordia, genera la gioia della condivisione. Con l’incarnazione,
con lo scambio avvenuto in Gesù, la condizione creaturale è stata
definitivamente assunta da Dio proprio perché il Figlio di Dio non
ha considerato un possesso geloso, una preda (Fil
2, 6:
harpagmós)
la
sua forma divina ma se ne è spogliato fino ad assumere la condizione
dello schiavo meritevole di essere appeso al “legno” perché
ritenuto indegno del cielo e della terra, reietto da Dio e dagli
uomini. Quella di Gesù è una kenosi
di
condivisione: la ricchezza di Dio che si riversa sugli uomini (cfr. 2
Cor, 8, 9).
«Mostra
a noi il tuo amore, Signore, e dona a noi la tua salvezza»
In
Gesù, come ricordava papa
Francesco
ai giovani in preparazione alla GMG di Cracovia, incontriamo il volto
gioioso di Dio Padre, «la gioia di Dio, la gioia che Egli prova
quando ritrova un peccatore e lo perdona. Sì, la gioia di Dio è
perdonare! Qui c’è la sintesi di tutto il Vangelo. “Ognuno di
noi è quella pecora smarrita, quella moneta perduta; ognuno di noi è
quel figlio che ha sciupato la propria libertà seguendo idoli falsi,
miraggi di felicità, e ha perso tutto. Ma Dio non ci dimentica, il
Padre non ci abbandona mai. È un padre paziente, ci aspetta sempre!
Rispetta la nostra libertà, ma rimane sempre fedele. E quando
ritorniamo a Lui, ci accoglie come figli, nella sua casa, perché non
smette mai, neppure per un momento, di aspettarci, con amore. E il
suo cuore è in festa per ogni figlio che ritorna. È in festa perché
è gioia. Dio ha questa gioia, quando uno di noi peccatore va da Lui
e chiede il suo perdono” (Angelus, 15 settembre 2013)». «Così,
vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito,
che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione» (Lc
15, 10).
Essere
discepoli oggi
Seguire
Gesù e annunciare il suo Vangelo: questo è il compito dei discepoli
di Cristo di ogni tempo. Ma oggi più che mai! Se questo - e solo
questo - facciamo, fedeli alla terra e ai compiti che ci ha affidato
la storia, allora le donne e gli uomini del nostro tempo conosceranno
vie di libertà, un nuovo umanesimo, perché conosceranno la gioia
della misericordia. Incontreranno nei nostri volti un Dio che prova
gioia e desidera la gioia degli uomini. Per questo è il
Misericordioso, il Veritiero, colui che non solo non illude ma colui
che nel suo Figlio morto e risorto ha la santa letizia di liberarci
dalla paura della massima fragilità di noi umani che è la morte.
Quella paura che ci rende soli, arrivisti, rapaci, insipienti; quella
angoscia che genera divisione, competizione, violenza, ingiustizia,
prevaricazione, emarginazione, respingimenti, odio, guerra,
sofferenza e morte degli innocenti, dei piccoli, dei poveri, dei
vinti della storia, cioè dei prediletti di Dio.
E
tra i prediletti di Dio - non lo dimentichiamo - ci siamo noi tutti,
veri peccatori, chiamati anche noi a gustare la gioia della
misericordia ricevuta e donata. Come scrive il teologo Giuseppe
Ruggieri,
«Quando l’uomo ritrova la capacità di confessare la misericordia
continuata di Dio, allora soltanto ritrova se stesso come dono, come
grazia, e vive nella gratitudine e nella gioia che nasce da essa,
quella gioia che abbiamo sperimentato fin da bambini quando siamo
stati perdonati da coloro che ci amavano. Allora soltanto l’uomo
vive nel rispetto e nella venerazione dell’altro e delle cose,
giacché l’amore “non manca di rispetto e non cerca il suo
interesse (1Cor 13, 15). […] Allora, secondo la bellissima metafora
presente non soltanto nel cristianesimo, l’uomo “ri-nasce”,
riceve cioè nuovamente se stesso, come aveva ricevuto se stesso
nella prima nascita che aveva negato con il suo atto di predazione,
rinnegando il dono che l’aveva fatto nascere, che l’aveva dato a
se stesso» (Introduzione,
in Monastero di Bose, La
chiesa peccatrice perdonata,
Qiqajon, Magnano 2016, 18)
Conclusioni
Solo
cristiani rigenerati dalla misericordia potranno ritrovare il
linguaggio del Vangelo che annuncia la pace di Dio con gli uomini e
la vicinanza del suo Regno. Papa
Francesco
per questo ha chiamato la chiesa a un movimento di conversione, a
gustare lei per prima la gioia della misericordia. Non c’è
annuncio del Vangelo se il Vangelo non cambia la vita dei cristiani e
delle nostre comunità. Per questo siamo qui ancora una volta a
celebrare la Perdonanza
Celestiniana!
Voglio avvalorare questo pensiero conclusivo riprendendo una pagina
che il pastore luterano Dietrich
Bonhoeffer
scrisse per la circostanza del battesimo del proprio nipotino, nel
maggio del 1944, dal carcere in cui era imprigionato per la propria
partecipazione alla congiura contro Hitler in obbedienza alla sua
coscienza di discepolo del Signore.
«Che
cosa significhi riconciliazione e redenzione; vita in Cristo e
sequela di Cristo – tutto questo è così difficile e lontano, che
quasi non osiamo più parlarne. Nelle parole e nei gesti tramandatici
noi intuiamo qualcosa che è del tutto nuovo, qualcosa che sta
completamente cambiando, senza poterlo ancora afferrare ed esprimere.
Questa è la nostra colpa. La nostra Chiesa, che in questi anni ha
lottato solo per la propria sopravvivenza, come fosse fine a se
stessa, è incapace di essere portatrice per gli uomini e per il
mondo della parola che riconcilia e redime. Perciò le parole d’un
tempo devono perdere la loro forza e ammutolire, e il nostro essere
cristiani oggi consisterà solo in due cose: nel pregare e nel fare
ciò che è giusto tra gli uomini. Ogni pensiero, ogni parola e ogni
misura organizzativa, per ciò che riguarda le realtà del
cristianesimo, devono rinascere da questo pregare e da questo fare.
[…] Sarà un linguaggio nuovo, forse completamente non-religioso,
ma capace di liberare e redimere, come il linguaggio di Gesù, tanto
che gli uomini ne saranno spaventati e tuttavia vinti dalla sua
potenza, il linguaggio di una nuova giustizia e di una nuova verità,
il linguaggio che annuncia la pace di Dio con gli uomini e la
vicinanza del suo Regno. “Si meraviglieranno e temeranno per tutto
il bene e per tutta la pace che farò loro” (Ger 33, 9). Fino ad
allora la causa dei cristiani sarà silenziosa e nascosta; ma ci
saranno uomini che pregheranno, opereranno ciò che è giusto e
attenderanno il tempo di Dio. Possa tu essere tra questi e si possa
un giorno dire di te: “il sentiero del giusto è come la luce, che
si fa sempre più chiara fino a giorno pieno” (Prov 4,18)»
(Resistenza e Resa,
Queriniana, Brescia 2002, 406)”.
+
Corrado Lorefice – Arcivescovo di Palermo