di Domenico Logozzo* - AFRICO NUOVO -
Frane, morti, feriti, case crollate, paesi semidistrutti, migliaia di
senza tetto. E’ il 14 ottobre del 1951 quando l’ennesima
alluvione si abbatte sulla Calabria.
Un cataclisma.
Aperte le cateratte del cielo. Quattro giorni da
apocalisse. “Pioveva intensamente, senza pause, i tetti non
reggevano più, le stradette di Africo come fiumi, non potevamo
uscire di casa. Avevamo tanta paura. In casa mia si è sfiorata la
tragedia. Ho ancora davanti agli occhi il volto cianotico della mia
sorellina di 2 mesi. Stava dormendo sul letto e qualcuno
inavvertitamente le aveva messo sopra un cesto pieno di biancheria.
“Dov’è Agata? Dov’è Agata?, si era messa a gridare mia mamma.
Momenti terribili. Al dramma dell’alluvione si univano i gravi
timori per la sorte della piccina. Non so quanto tempo è passato. A
me è sembrata – e sembra tuttora – che sia passata un’eternità
tra l’allarme di mia madre e il momento in cui abbiamo alzato il
cesto e trovata Agata, che respirava a fatica. Salvata per miracolo,
è stato davvero un miracolo”.
Il racconto è di
una testimone diretta dell’alluvione che 65 anni fa ha devastato
Africo,
Casalnuovo
e
tanti altri centri della provincia di Reggio Calabria. Francesca
Maviglia,
che allora aveva 8 anni, oggi è una meravigliosa nonna di 73 anni.
La incontriamo nella sua casa di Africo
Nuovo.
Ricordi lucidi. “Sono profondamente legata al passato, non voglio
dimenticare i più significativi momenti di una vita vissuta
intensamente. Ricordare serve, eccome. Non sono d’accordo con
quanti sostengono il contrario”. Francesca
Maviglia
inizia dai giorni della grande paura, dal 14 al 18 ottobre del 1951.
Tre vittime ad Africo,
sei a Casalnuovo
e danni ingenti. “Non la smetteva più di piovere. Sembrava il
diluvio universale”. I giornali scrivevano che “tutta la
provincia si è trasformata in una immensa, fangosa palude dalla
quale emergono, squallide e smozzicate, le case di interi centri
investiti dalla furia inesorabile degli elementi. Ovunque le
popolazioni, in condizioni disperate invocano aiuti: ammalati,
feriti, donne, vecchi e bambini senza pane, senza case, senza
indumenti, esposti al rigore delle intemperie”.
Luoghi impervi.
Difficilmente accessibili. Nei primi anni Cinquanta La Stampa di
Torino, dopo l’ennesima alluvione calabrese, scriveva: “Notizie
di morti, di paesi crollati, di strade franate, di ponti interrotti.
Ma si pensa in questo momento ai disgraziati paesi dell'interno, ai
paesini remoti e dispersi fatti di misere case, dove non c'è
telegrafo, non c'è telefono, non c'è luce, non c'è nulla per
conforto, altro che la poca farina nella madia e il tepore del
ciucarello
nell'unica
stanza”. Così era stato in quel terribile ottobre del 1951. “Non
c’erano strade degne di questo nome. Dicevano che volevano
costruire una “rotabile”. Ma le promesse erano purtroppo rimaste
tali”. Nel marzo 1948 il settimanale “L'Europeo” aveva
pubblicato una inchiesta su Africo realizzata dal grande inviato
Tommaso
Besozzi
con le fotografie di Tino
Petrelli.
L’opinione pubblica era rimasta scossa dalle disumane condizioni di
completo abbandono. Già sul finire degli Anni Venti un grande amico
del Mezzogiorno e della Calabria in particolare, il piemontese
Umberto
Zanotti Bianco,
aveva denunciato la tragica realtà del paese aspromontano.
Inascoltato. Purtroppo.
L’alluvione del
1951 provocò l’evacuazione di Africo e Casalnuovo e
successivamente il loro trasferimento in località La Quercia di Capo
Bruzzano, nel territorio del Comune di Bianco, dove è stato
edificato Africo
Nuovo.
“Inizialmente – ci dice nonna Francesca - trovammo alloggio nelle
scuole elementari di Bova. Poi a Gambarie e quindi a Reggio Calabria,
in contrada Lazzaretto di Condera, dove c’erano anche le baracche
di legno. Era chiamato “il lazzaretto” perché c’era stato un
ospedale dove venivano curate le persone con malattie infettive. Per
modo di dire l’avevano “disinfettato”, prima di sistemare gli
alluvionati. Alcune famiglie furono trasferite anche a Palmi e
Fiumara di Muro. Noi abitavamo in una casa di 4 camere con i nonni
gli zii e alcuni amici, che ancora oggi sono per me molto cari perché
siamo cresciuti insieme. Sono come fratelli e sorelle. A Reggio
abbiamo ripreso a frequentare la scuola. Tutte le classi delle
elementari nella stessa aula, dalla prima alla quinta. Siamo rimasti
a Reggio Calabria fino quando non sono state assegnate agli inizi
degli anni Sessanta le prime case di Africo Nuovo. A Reggio sono
rimasta sette mesi di più rispetto al resto degli altri della
famiglia. Inoltre ritornavo due volte alla settimana per ultimare le
lezioni del corso di taglio che mi sono state molto utili in futuro”.
Francesca
Maviglia
racconta e si commuove. Accanto a lei la nipote diciannovenne
Francesca
Fiumanò
(“Porta il mio stesso nome” ci dice orgogliosamente la nonna).
Appena ultimato il Liceo Scientifico Zaleuco, ha le idee chiare sul
futuro: “Mi iscriverò alla Facoltà di Architettura a Milano, dove
vive mia zia”. Francesca l’abbiamo conosciuta durante un incontro
con le ragazze ed i ragazzi del liceo locrese grazie al dinamico
prof.
Giuseppe Giarmoleo
che da anni propone e realizza progetti di grande spessore culturale
e sociale. Qui la buona scuola trova pratica attuazione. Abbiamo
avuto l’opportunità di constatarlo in più occasioni. Quando
qualche tempo fa abbiamo parlato dell’alluvione che nel 1951 ha
sconvolto Africo, Francesca è intervenuta per dirci della drammatica
esperienza vissuta dalla nonna. Le abbiamo chiesto di poterla
conoscere e intervistarla e sia la nonna che la nipote sono state
molto disponibili e cortesi.
Così nasce questo
racconto. Grazie soprattutto alla scuola. “La scuola, quanto mi
dispiace ancora oggi non avere potuto frequentare l’università”,
ci dice la nonna. “Un sogno che non si è realizzato ma che ho
cercato di trasferire alle mie tre figlie ed alle nipoti”.
Aggiunge: “A quei tempi i nostri genitori non ci tenevano molto
alla scuola. Dicevano che dovevamo imparare un mestiere e poi
sposarci. Ricordo quando eravamo sfollati a Reggio Calabria. La
mattina frequentavo le elementari ed il pomeriggio andavo dalla
sarta. Non avevo più di 8 anni”. Con grande soddisfazione oggi
afferma: “Doveva essere un modo per occupare il tempo ma ben presto
mi sono resa conto che avevo imparato un mestiere. Quasi per
…scherzo”. Guarda la nipote che ascolta con attenzione ed
ammirazione e poi si gira verso di noi. Un grande sorriso per farci
sapere che “a 13-14 anni riuscivo a cucire anche gli abiti da
sposa! Purtroppo non ci sono foto. Però il mio abito da sposa glielo
posso far vedere. Fatto con queste mani”.
Nonna Francesca si
alza e va a prendere una scatola piena di foto e di ricordi
indimenticabili. “Ecco le foto del mio matrimonio! Peccato che chi
le ha scattate non è stato molto bravo a mettere in evidenza i
particolari dell’abito. Era molto bello. Mi creda. Ci ho messo
tanta pazienza”. Prende un’altra scatola. “Vede, questa è la
coroncina che ho messo sui capelli quel felice giorno del 1964 quando
con tutto il paese in festa io e il mio meraviglioso marito Antonio
Versace abbiamo coronato il bel sogno d’amore. Abbiamo avuto tre
figlie: Vittoria (la mamma di Francesca), Maria Antonia e Angela”.
Nonna Francesca pone la coroncina sul capo della nipote. Una bella
immagine di felicità. Una corona di amore. Un ricordo del passato
per un futuro migliore. “I giovani di oggi non hanno tempo per
ascoltare quello che raccontiamo. Vanno di corsa. Francesca ogni
tanto per lo fa. Si ferma e mi ascolta”. E la nipote con un grande
sorriso: “La nonna ci vorrebbe tutti i giorni e tutti qui con
lei…”. Quanta dolcezza nei loro sguardi.
Nonna Francesca
ritorna indietro con la mente ai giorni del matrimonio che è stato
celebrato ad Africo nel 1964. “Mi dicevano “Porta sfortuna se il
vestito viene cucito dalla stessa sposa”. Non li ho sentiti. Non ho
cambiato idea. Ho ritenuto di non farlo fare ad altri perché io ero
in grado di realizzarlo. E bene!” La superstizione non l’ha
condizionata. Bisognava cominciare a cambiare mentalità. Decisa
ieri, fiera oggi. “Ho trasgredito le regole, è vero, ma devo dire
che sono cresciuta in una famiglia dove ogni decisione l’abbiamo
presa senza farci mai condizionare. Questi gli insegnamenti che
abbiamo avuto tutti i 7 figli da mio padre Domenico Maviglia e da mia
madre Antonia Criaco”. E anche dei genitori conserva una preziosa
foto. Sentimenti belli. “Mia madre era una bella donna, mia nonna
bellissima. Un fisico da indossatrice. Un volto meraviglioso. Mi
creda. La ricordo bene mia nonna. Peccato che non ci sia neppure una
foto”. Dopo aver ricordato che anche i vestiti di tantissime
ragazze del paese che hanno partecipato al matrimonio erano stati
opera sua, sottolinea la novità del menù che “per la prima volta
ad Africo non era a base di carne di capra”.
L’emozione dei
momenti felici. Ci parla del viaggio di nozze a Roma,
la foto davanti a Fontana di Trevi con il marito Antonio (“Un uomo
molto bello e molto buono”, ripete più volte), il lancio della
monetina. “Guardi, guardi bene anche questo vestito. Fatto con le
mie mani”. Attivissima. Ad Africo aveva aperto anche la scuola di
taglio e cucito. “Questa stanza era sempre piena di ragazze. Le
lezioni finivano a tarda sera. Distrutta ma felice. Lo confesso. Sì,
felice di poter mettere a frutto tutto quello che avevo imparato fin
da ragazzina. Ho giocato poco, anzi per niente, perché la mamma ci
teneva impegnate dalla mattina alla sera. I maschi avevano invece la
possibilità di giocare. Erano più liberi”. Oggi ci confida: “Ho
un grande rimpianto, quello di non aver potuto frequentare
l’università e laurearmi. Questo non per colpa mia. Mia madre non
me lo ha consentito. Ma non sono riuscita mai a rimproverarla, perché
sono una donna buona, altrimenti glielo avrei rinfacciato ogni
giorno. L’amarezza – e quanta amarezza! – la provo ancora oggi.
Penso tuttavia di avere dato un contributo importante alla crescita
sociale e culturale delle nuove generazioni del mio territorio negli
anni in cui ho fatto la maestra d’asilo”.
Ci racconta un
episodio molto significativo degli anni in cui ha prestato servizio
in un paesino dell’Aspromonte. “Un giorno sono andata a fare le
condoglianze alla mamma di due mie piccole alunne dopo che per motivi
di ‘ndrangheta era stato ucciso il loro papà. Quando sono entrata
nella stanza dove si vegliava il defunto ho visto una scena davvero
che mi ha colpito moltissimo: tutti stesi a terra a piangere il
morto. Sono rimasta stupefatta soprattutto quando ho visto le due
piccine completamente vestite di nero. “No, le bambine no, non
potete vestirle di nero!”. Si sono associate al mio invito tante
altre donne. “No, le bambine no, non bisogna vestirle di nero”.
Da allora in poi le bimbe di quel paesino non furono più vestite di
nero”.
Ci parla di tanto
altro ancora la vulcanica nonna Francesca. Un libro aperto sulla
storia del passato. Ci mostra altre foto. Sfoglia con lucidità
l’album della memoria. Si è fatta sera. E’ il momento di
salutarci. Ci ringrazia per l’attenzione con la quale l’abbiamo
ascoltata. “Entusiasta e felice per aver rispolverato i ricordi di
una vita”. Siamo noi a ringraziarla per la bella lezione di umanità
e le tante perle di saggezza che ci ha regalato. “Mia nonna è
forte. Non si abbatte di fronte ai problemi, grossi o piccoli, anche
quelli di salute contro i quali ha combattuto e combatte con
coraggio. E’ una guida preziosa per tutta la famiglia. Vorrei
riuscire ad essere come lei”, ci dice la nipote Francesca
Fiumanò,
splendida ragazza della Locride che non si arrende, che sogna e che
sa sognare.
*già
Caporedattore TGR Rai
Foto: Africo
Nuovo,1964. Il matrimonio. Oltre ad avere cucito il proprio abito, la
sposa ha confezionato anche i vestiti delle ragazze che hanno
partecipato alla festa.